Il fisico tedesco Werner Heisenberg, uno dei fondatori della meccanica quantistica, vinse il premio Nobel nel 1932 quando non aveva ancora 31 anni. Il suo collega Paul A.M. Dirac, altro gigante, lo vinse l’anno dopo alla stessa età. Non erano i vincitori più giovani. Nel 1915, l’inglese d’origine australiana Lawrence Bragg se l’era meritato a appena 25 anni per aver indagato la struttura della materia usando i raggi X.

Fu un periodo d’oro per la fisica – una rivoluzione scientifica, si sarebbe detto qualche anno dopo – in cui le scoperte si succedevano a ritmo forsennato e i premi Nobel non riuscivano quasi a tenerne il passo. In un’epoca in cui molte università prestigiose vietavano la docenza alle donne, Marie Curie vinceva il suo secondo premio Nobel a appena 44 anni. Non vale solo per la fisica o la chimica: il biologo James Watson, che con Rosalind Franklin e Francis Crick scoprì la struttura del Dna, lo ricevette a 34 anni di età nel 1962.

Oggi le cose sono cambiate. La scienza è diventata un’industria globale ma avanza con il ritmo posato di un pachiderma. Se negli anni ‘60 si pubblicavano meno di mezzo milione di articoli scientifici ogni anno, oggi si viaggia verso i dieci milioni. Scoperte importanti se ne fanno ancora ma non c’è più bisogno di sbrigarsi a premiarle. L’astrofisico indiano Subramanyan Chandrasekar vinse il Nobel nel 1983 grazie a ricerche svolte a vent’anni, nei primi anni ‘30. Peter Higgs, premiato nel 2012 per l’omonima particella, l’aveva teorizzata nel 1964. Ricevere il premio quando ormai si è in pensione è diventata la norma. Non c’è più la scienza di una volta?

SEMBRANO le chiacchiere che si fanno nella pausa caffè. Invece, uno studio pubblicato all’inizio di gennaio sulla rivista Nature dimostra con una dovizia di dati che davvero oggi si compiono meno scoperte rivoluzionarie di un tempo. A realizzare lo studio sono stati Michael Park, Erin Leahey e Russel J. Funk, tre studiosi di organizzazione della ricerca alle università di Minneapolis (Minnesota) e Tucson (Arizona).
Per misurare un concetto vago come la portata rivoluzionaria di una ricerca o di un’invenzione, i tre hanno usato le bibliografie. Ogni studio scientifico pubblicato su una rivista, infatti, cita le ricerche precedenti più rilevanti su cui il lavoro stesso è basato.

Secondo i tre autori, quando una ricerca è rivoluzionaria gli studi precedenti, divenuti obsoleti, smettono di essere citati. In caso contrario, significa che la ricerca è stata magari importante, ma non ha davvero spazzato via il sapere antecedente. Grazie ai database che catalogano in formato digitale praticamente tutte le ricerche pubblicate finora, la capacità di rivoluzionare il sapere può essere misurata con strumenti statistici e si può osservare come sia cambiata nel tempo. Park e colleghi hanno potuto così osservare che le ricerche di oggi sono mediamente molto meno innovative di un tempo. Secondo il loro dati, dal 1945 a oggi la portata rivoluzionaria delle nuove ricerche è calata di oltre il 90% un po’ in tutti i campi. L’osservazione è confermata anche quando si applica lo stesso metodo ai brevetti, cioè alle invenzioni tecnologiche.

La conclusione è confermata dall’analisi testuale delle ricerche: si usano sempre meno parole che hanno a che fare con la creatività, come «produrre», «fare», «preparare» e dilagano vocaboli come «migliorare» o «aumentare» che alludono a progressi graduali. O come «usare» o «includere», che richiamano l’applicazione di un’idea esistente più che l’invenzione. I tre sociologi fanno notare che in termini assoluti il numero di scoperte radicalmente innovative è piuttosto stabile. Ma sono diventate merce sempre più rara perché le ricerche «normali», dedicate a confermare o migliorare le scoperte già note, sono nel frattempo aumentate a dismisura.

DA QUANDO L’ARTICOLO è stato pubblicato, la discussione tra i ricercatori si è parecchio animata anche su social network come twitter, il più frequentato dagli accademici. Nessuno conosce le ragioni del declino dell’innovazione. Pochi prendono in considerazione l’idea che non ci sia più niente da scoprire. A dire il vero, non è nemmeno certo che una scienza che proceda per piccoli passi sia una scienza peggiore. «In un mondo in cui siamo preoccupati per la validità delle scoperte, potrebbe essere una buona notizia che ci siano più ricerche dedicate alla verifica di quelle già fatte» ha detto alla stessa rivista Nature John Walsh, studioso di politica della ricerca al Georgia Institute of Technology di Atlanta.

Ma se una ricerca su un tema così generico come la «portata rivoluzionaria» di una scoperta ha avuto tanta eco tra gli addetti ai lavori, è perché tocca diversi tasti dolenti. La comunità scientifica globale è attraversata da un diffuso malessere a cui lo studio sembra aver dato evidenza empirica. Negli ultimi decenni, l’importanza sociale ed economica della ricerca scientifica è aumentata in tutto il mondo. La comunità scientifica sì è aperta a nuove culture e idee.

Oggi rivestono un’importanza molto maggiore di prima le ricercatrici – in un settore a lungo dominato dai maschi – e i ricercatori che lavorano nei Paesi asiatici (Cina, India, Pakistan) e persino in Africa. Tuttavia, lavorare nel mondo accademico non è più «una vita in vacanza» come poteva sembrare qualche decennio fa. Tra i giovani ricercatori, ad esempio, si rileva un tasso di disagio psicologico elevatissimo, dovuto alla competizione e alla precarietà dilagante.

EMERGONO ogni giorno nuovi scandali riguardanti i ricercatori che truccano i dati per fare carriera, grazie a strumenti digitali che facilitano le frodi ma anche la loro individuazione. Anche nelle università più prestigiose si diffonde la sensazione che la corsa a pubblicare sempre più ricerche per allungare il curriculum danneggi la credibilità della ricerca. Eppure la spinta a affidarsi a meccanismi oggettivi per la valutazione delle ricerche e dei ricercatori fa sì che la caccia alla pubblicazione sia uno sport sempre più popolare. La pressione a produrre risultati spendibili sul mercato, inoltre, ha fatto entrare in molte università e centri di ricerca un’organizzazione del lavoro simile a quella aziendale. Altre ricerche analoghe a quella pubblicata su Nature hanno mostrato che i gruppi di ricerca enormi che caratterizzano la Big Science non sono quelli più adatti a compiere rivoluzioni.

SE LA FABBRICA della scienza si è ridotta a una triste catena di montaggio, forse è il caso di rivedere le sue regole? Lo pensa Tim Minshall, professore di innovazione all’università inglese di Cambridge, che parlando con il Financial Times invita a «rivedere l’intero sistema: dagli incentivi e gli ostacoli per gli scienziati, le università, le società e i governi che intraprendono ricerche visionarie, alla difficoltà di cogliere tutto il loro valore sociale e scientifico delle idee più radicali».

Gli stessi autori dello studio fanno alcune proposte per ripristinare l’innovazione perduta. «Le università devono superare l’obiettivo della quantità, premiare maggiormente la qualità della ricerca e finanziare maggiormente gli anni sabbatici (i periodi di pausa in cui gli scienziati vengono sollevati da ogni impegno burocratico, ndr). Le agenzie federali devono sostenere le carriere dei ricercatori, un impegno più rischioso e a lungo termine, e non solo specifici progetti di ricerca, per regalare agli scienziati il tempo necessario per uscire dal mucchio e liberarsi della cultura del “pubblica o muori”». Parole di cui ogni ministro dovrebbe prendere nota, perché mai come ora il mondo ha bisogno di innovazioni radicali.