Quando arte e storia si incontrano. Il tour di Leonard Cohen nel Sinai nel 1973
L'indagine «Il canto del fuoco», del giornalista canadese-israeliano Matti Friedman, pubblicato nella collana «Vite» di Giuntina. Stasera alle 21 la presentazione a Roma nell’ambito del festival «Ebraica» con l’autore e Valerio Corzani
L'indagine «Il canto del fuoco», del giornalista canadese-israeliano Matti Friedman, pubblicato nella collana «Vite» di Giuntina. Stasera alle 21 la presentazione a Roma nell’ambito del festival «Ebraica» con l’autore e Valerio Corzani
«Un giovane depresso che crea della musica triste». Per quanto contenesse delle canzoni indimenticabili come «Suzanne», o brani utilizzati anche nelle colonne sonore dei film di Werner Herzog e Robert Altman, rispettivamente «Hey, That’s No Way to Say Goodbye» e «Sisters of Mercy», è in questi termini che il New York Times salutò nel 1967 l’uscita del primo album di Leonard Cohen.
PER IL CANTAUTORE canadese, scomparso nel 2016, il successo sarebbe arrivato di lì a poco, intrecciandosi però, lungo una carriera lunga più di mezzo secolo, con una complessa ricerca interiore, la depressione, le droghe. Non a caso, uno dei suoi maggiori biografi, Liel Leibovitz, autore di A Broken Hallelujah, uscito nel 2014 e tutt’ora inedito in Italia, lo ha descritto nei termini di un complesso «amalgama di trascendente e di terrestre».
Cresciuto a Westmount, enclave anglofona di Montréal, in una famiglia che aveva espresso rabbini e studiosi della Torà, Cohen ebbe per tutta la vita un rapporto complesso con l’ebraismo, la cui eco profonda torna però in molte delle sue composizioni, ma, allo stesso tempo, soggiornò cinque anni in un monastero californiano e visse un’intensa esperienza buddista. Mentre nelle fasi più dure, e prima di disintossicarsi del tutto, combatteva i propri peggiori fantasmi a colpi di anfetamina, Lsd e Mandrax, un potente sedativo dall’effetto ipnotico.
Quello che alla fine degli anni Settanta era già un autore affermato, per le sue poesie, i suoi romanzi e, soprattutto, i primi dischi, sembrava però alla ricerca costante di una circostanza o un luogo «dove ricominciare».
LA STORIA CHE FA RIVIVERE Matti Friedman, il giornalista canadese-israeliano già autore di Spie di nessun paese (recensito su queste pagine nel maggio del 2021) ne Il canto del fuoco (Giuntina, pp. 236, euro 18, traduzione di Rosanella Volponi), racconta proprio una di queste fasi della vita di Cohen e il suo intrecciarsi con uno dei momenti più difficili, e forse decisivi, della storia dello Stato d’Israele. Friedman narra infatti, anche a partire da un manoscritto che lo stesso cantautore aveva redatto all’indomani di quell’esperienza, il «tour» che Leonard Cohen compì nell’ottobre del 1973 nel Sinai durante la Guerra del Kippur. Quel conflitto, scatenato dall’attacco improvviso delle forze egiziane e siriane nel giorno della festa dello Yom Kippur, fu sul punto di mettere in dubbio l’esistenza stessa di Israele, e ha segnato profondamente l’opinione pubblica locale, come illustrato anche dal film omonimo girato da Amos Gitai nel 2000.
In quel momento Leonard Cohen, che ha 39 anni, si trova nell’isola greca di Idra, eletta a rifugio da molti fricchettoni d’alto bordo, con Adam, il suo primo figlio e la sua compagna del momento, Suzanne, non quella della canzone, ma una giovane conosciuta a New York. Attraversa una delle su fasi più cupe, Sul piano personale come su quello artistico, malgrado le tournée europee dell’anno precedente siano andate bene. Al Melody maker ha dichiarato addirittura di voler abbandonare la musica. A fare la differenza saranno le notizie che arrivano dalla radio, l’idea che Israele, che Cohen considera la sua «casa mitica», senza per altro chiarire fino in fondo cosa intenda con questa espressione, possa venire cancellata. Pochi giorni e si trova già in viaggio per una base aerea del Sinai.
Una camicia color kaki, accompagnato da musicisti israeliani già in forza all’esercito o che si sono mobilitati per sostenere le truppe, l’uomo che solo poco tempo prima si era esibito davanti a centinaia di migliaia di persone al Festival dell’Isola di Wight, si esibisce di fronte a un pubblico di qualche decina di soldati seduti in circolo, sulla sabbia. Un reporter israeliano che segue l’evento annota che prima di suonare «Suzanne» Cohen si rivolge a quei giovani, spiegando: «Questa canzone dovrebbe essere ascoltata in casa, al caldo di una stanza, con qualcosa da bere e la donna che ami. Spero che al più presto possiate trovarvi in questa situazione». I soldati restano in silenzio, alcuni non conoscono neppure la canzone.
QUEL TOUR di cui non si aveva scarsa memoria fino ad oggi, durerà una settimana e vedrà Cohen esibirsi in zona di guerra, nelle basi israeliane in mezzo al deserto. Da quell’esperienza il cantautore ritroverà una nuova fiducia in se stesso e un rinnovato amore per la vita. Del resto, come spiega Friedman, «talvolta un artista e un evento storico interagiscono fino a scatenare un’energia più grande di entrambi: non è solo perché l’opera conserverà il ricordo di quell’evento, ma anche perché rappresenterà un’affermazione della creatività umana di fronte a un accadimento doloroso, difficile da comprendere razionalmente».
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