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Punto e virgola, il segno della quasità, un pateracchio linguistico

Punto e virgola, il segno della quasità,  un pateracchio linguistico

Il respiro della prosa/5 Oggetto definibile soltanto per approssimazione, perché privo di una funzione autonoma, il punto e virgola risolve l’imbarazzo della scelta... fra un punto fermo e una virgola: magistrale l'uso che ne fa Kafka in «Un medico di campagna»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 7 agosto 2022

Il punto e virgola è, nella scrittura, un segno di interpunzione raro. Subisce, al pari dei puntini di sospensione, la concorrenza del trattino che divide due enunciati rendendo l’uno il completamento dell’altro, come ad anticipare la prossima soluzione di un interrogativo rimasto in sospeso o la soluzione di un problema ancora aperto. Non per nulla la resa del trattino è sempre un’interessante sfida per chi traduce in italiano, per esempio, i testi della letteratura tedesca: un’aura di arbitrio avvolge in ogni caso la sua restituzione poiché, di volta in volta, il Gedankenstrich (trattino) che reca nel nome la sospensione del pensiero da trasferire sulla pagina scritta, può trasformarsi in un punto e virgola, in due punti, in una semplice virgola o anche rimanere immutato.

Un’esistenza oscura
La versatilità dello strumento ne determina l’uso abbondante e persino sovrabbondante in molti autori. E nella maggior parte dei casi ai danni, proprio, del punto e virgola. A proposito del quale il «Duden» – la più diffusa grammatica di consultazione in tutta l’area tedesca – osserva introduttivamente che esso «conduce un’esistenza oscura fra i segni d’interpunzione della lingua tedesca», spiegando poi quello che anche qualsiasi bambino italiano impara fin dalle scuole elementari: cioè che il punto e virgola occupa «una posizione intermedia fra il punto e la virgola» e, in pratica, può essere sostituito in molti casi dall’uno o dall’altra.

Con maggiore eleganza, l’Istituto per la lingua tedesca (Institut für deutsche Sprache) di Mannheim ha elaborato una descrizione prescrittiva dell’uso del punto e virgola, finita pari pari fra le regole per la corretta scrittura del tedesco che dice più o meno la stessa cosa: «Con il punto e virgola si possono separare l’una dall’altra parti di frase o gruppi di parole di pari rango (coordinate). Con il punto e virgola si rende un grado di separazione più alto che con la virgola, ma più limitato che con il punto».

Anche per gli eruditi linguisti di Mannheim il punto e virgola è un oggetto definibile soltanto per approssimazione rispetto ad altri segni d’interpunzione di maggior rilievo, un oggetto privo di una funzione propria il cui unico pregio è quello di offrire sostegno nell’imbarazzo della scelta fra un punto e una virgola. Persino il nome che il tedesco gli attribuisce è un ircocervo tanto aulico quanto malcerto che si compone di una parola latina e di una greca – Semikolon – per distinguerlo, pure, dai due punti – Kolon – i quali esibiscono invece, nel nome, la loro purissima origine greca.

Raro, dunque, e difficile da stabilire il corretto uso del punto e virgola in tedesco, rarissimi gli autori che ne fanno un uso significativo o, perlomeno, caratterizzante. Non diversamente dalla virgola, scrivono anche gli eruditi di Mannheim, il punto e virgola coordina. Ma che razza di coordinazione si può mai attribuire a un segno approssimativo, il cui tratto distintivo è – sia consentito il termine – la quasità, la via di mezzo fra un segno che collega lui sì, coordinandole, due parti di una proposizione e un altro che le separa inesorabilmente? Che uso sensato si può mai fare di un simile pateracchio linguistico?

Sembrerebbe impossibile, a meno di non porsi la domanda giusta. E la domanda giusta è, espressa nel modo più semplice possibile: quanto dura la pausa indicata dal punto e virgola? Per quanto tempo le parti di una proposizione internamente coordinate dal punto e virgola restano sospese nel nulla, in attesa di trovare una plausibile continuazione?

La virgola, si sa, implica una pausa breve o brevissima, tale da non interrompere il flusso di pensiero da cui originano la proposizione e il processo di comprensione da essa richiesto. Ma il punto? La durata del punto è infinita. Il punto non separa soltanto: chiude, risolve e, soprattutto, conclude, mette fine. La fine può essere relativa e, dopo una lunga attesa, il testo può ricominciare a snodarsi. Ma il lettore che non può terminare il libro o il capitolo che ha sotto gli occhi sceglierà inevitabilmente un punto per concludere provvisoriamente o definitivamente la sua impresa. E in ogni caso, una volta raggiunto il suo punto d’arrivo, il testo finisce per sempre con un punto.

Se si commisura dunque la durata della pausa generata dal punto e virgola alla breve interruzione della virgola si deve ritenere, come fa la quasi totalità dei germanofoni, che il punto e virgola duri un po’, ma non troppo. Se la medesima durata si commisura però a quella, interminabile, del punto, la questione cambia completamente aspetto e il punto e virgola dice ciò che nessun’altra parte di nessun sistema grammaticale può indicare nello stesso modo.

Un esempio eclatante
Prendiamo, ad esempio, Kafka. In poche prose, non più di un paio, contenute nella più geniale raccolta di racconti mai pubblicata in lingua tedesca – Un medico di campagna – il punto e virgola regna sovrano. L’eterna tragedia dello spazio rende impossibile illustrare il caso più straordinario di uso kafkiano del punto e virgola: quello che determina tutto il significato del difficilissimo racconto In galleria. Si può tuttavia considerare l’utilizzo – di poco meno notevole – che Kafka fa dell’imbarazzante Semikolon nel racconto che dà il titolo alla raccolta: Un medico di campagna. Qui il punto e virgola è protagonista fin dall’inizio. Nel lungo monologo interiore che occupa l’intero racconto il punto e virgola demarca i confini delle percezioni e dei pensieri che attraversano la coscienza dell’afflitto medico, privo di un cavallo: «Ero in grande difficoltà: mi aspettava un viaggio impellente; in un paese distante dieci miglia ero atteso da un malato grave; fra me e lui una violenta bufera di neve riempiva il vasto spazio; avevo una carrozza, leggera, con ruote grandi, adatta alle nostre strade di campagna; avvolto nella pelliccia, la borsa degli strumenti in mano, mi trovavo già in cortile, pronto a partire; ma il cavallo mancava, il cavallo».

In apparenza la scarna descrizione dell’imbarazzante stato di cose non ha nulla di strano: l’impervio racconto, anzi, non sarà mai più chiaro di così. Ma cosa giustifica la singolare abbondanza di punti e virgola? In effetti, per tutto il racconto, ogni qualvolta il monologo allineerà i pensieri e le percezioni del medico, i punti e virgola torneranno a svolgere la medesima funzione cui assolvono in queste prime righe, dissolvendosi, invece, quando la narrazione seguirà le impenetrabili fantasie e i sogni a occhi aperti del medico.

Un mondo esploso
È possibile che Kafka attribuisca al suo protagonista una doppia coscienza: quella lucida e limpida che affiora fin da queste prime frasi e quella confusa, onirica, forse delirante che il resto del racconto gli attribuisce. Ma le cose non stanno così e a dimostrarlo sono proprio i Semikola che Kafka ha pensato come punti depotenziati, privati della loro infinità, ma ancora dotati della capacità di separare. Se durante la lettura si allunga infatti la pausa fra le singole osservazioni del medico, l’apparente chiarezza della narrazione si dissolve, pensieri e osservazioni non si coordinano più ed emerge nella coscienza del lettore, non diversamente che in quella del medico, l’immagine di un mondo esploso in una miriade di frammenti isolati e come tali intellettualmente acquisiti, ma che non si coordinano in nessun comprensibile insieme. Non diversamente che nelle altre parti della sua storia la coscienza del medico è in grado di afferrare singole parti della sua vicenda, ma non di leggerle come parti di un tutto, né di comprendere il loro logico nesso.

L’ambivalenza del punto e virgola ha raggiunto qui la sua massima potenza espressiva: come segnale di quello stato intermedio in cui i frammenti della percezione sono, al tempo stesso, collegati e separati, afferrabili e inafferrabili, perché la sparizione del nesso fra di loro, marcata dal punto e virgola, li fa vagare nel vuoto di un’incomprensibile totalità.

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