Tra i segni di interpunzione il punto e virgola è forse il più ambiguo: è quello per cui non esiste una funzione chiara, semplice, univoca. È anche quello sul quale – come accade ad altri aspetti della nostra lingua – aleggia da tempo un senso di pericolo, di sparizione. Anni fa, esattamente il 5 aprile del 2008, Stefano Bartezzaghi scrisse sulla Repubblica un «Addio al punto e virgola»; lo stesso giorno, anche Le Monde uscì con un articolo simile: «Le point-virgule, un signe en voi de disparition?». Seguirono una serie di interventi, tra cui uno di Pietro Citati che iniziava così: «l’assassinio del punto e virgola è molto più grave dell’assassinio di padri, madri, figli, figlie, mariti, nonne, cognati, di cui parlano con infinità voluttà i nostri telegiornali».

Per fortuna, come il congiuntivo (altro eterno moribondo della nostra lingua) anche il punto e virgola non è affatto scomparso. Certo, il suo uso è minoritario ma è ancora ben presente nella scrittura più curata. D’altronde, sarebbe un peccato farne a meno. Pensate alla prima pagina di Pinocchio. Maestro Ciliegia dà il primo colpo d’ascia e sente una voce arrivare non sa da dove: «Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno; guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio, e nessuno; guardò nel corbello, e nessuno; aprì l’uscio di bottega, e nessuno. E dunque?». La serie di punti e virgola ritma, in modo perfetto, i diversi momenti dell’azione saldandoli l’uno all’altro. Il bambino che ascolta di solito ha qui il primo assaggio della gioia che gli darà il resto della storia: quella della ricerca. Se Collodi avesse usato dei punti fermi dopo e nessuno l’effetto sarebbe stato meno preciso, la tensione si sarebbe sgranata.

Questo esempio di Pinocchio ci mostra una delle funzioni primarie del punto e virgola: quella di separare gli elementi in elenchi complessi in cui compaiano già delle virgole. Al pari dell’apostrofo, un segno grafico assimilabile a quello che oggi noi chiamiamo punto e virgola era usato da secoli con significati diversi. Bembo e Manuzio lo avevano visto nei manoscritti dei classici: nei codici greci, in cui era usato per indicare il punto di domanda; nei manoscritti in alfabeto latino, in cui era usato – tra l’altro – per indicare una pausa della voce alla fine di una porzione di testo, come una sorta di segno di paragrafo. Così lo usa, ad esempio, Giovanni Boccaccio nel manoscritto in cui copia di propria mano il Decameron, oggi conservato a Berlino.

Un respiro internazionale
Dalle pagine di quel libretto stampato a Venezia alla fine del Quattrocento il punto e virgola come segno di interpunzione si diffonderà, gradualmente, in tutta la cultura occidentale. La sua storia, per quanto riguarda la lingua italiana, è stata ben raccontata alcuni anni fa da Paola Baratter in un libro uscito per Carocci. Ma l’attenzione per questo segno ha un respiro internazionale: basta fare una banale ricerca in rete per rendersene conto. In vendita si trovano addirittura dei poster – molto belli – che rappresentano in un vortice i segni di punteggiatura di capolavori della letteratura mondiale, senza le parole. Quello dedicato a Moby Dick contiene i 4.169 punti e virgola che compaiono nelle 503 pagine dell’edizione originale uscita a New York nel 1851; una media di 8.3 punti e virgola per pagina, escludendo quello che compare sul frontespizio: Moby-Dick; or, The Whale.

L’Ottocento è stato, d’altronde, anche il periodo in cui – in un’Italia in massima parte abitata da analfabeti – il punto e virgola è stato visto come un tratto ricercato, tipico della cultura alta. È indicativa la citazione di un romanzo di fine Ottocento che si trova alla voce punto e virgola nel Grande Dizionario della Lingua Italiana: «Arrivato all’albergo e vestitosi in punto e virgola, Marco stava per scendere abbasso quando dal cameriere gli fu annunciata una visita». Anche per questo, forse, il punto e virgola si è caricato di una particolare attrattività agli occhi di chi non era in grado di dominarlo.

Ricordiamo tutti la scena di Totò Peppino e la… malafemmina in cui Totò sigilla la lettera con «un punto, punto e virgola, punto e punto e virgola» e di fronte alle rimostranze di Peppino («troppa roba») risponde: «Lascia fare. Poi dicono che siamo provinciali, che siamo tirati!». Non si trattava solo di una trovata geniale. Nelle lettere di chi si affidava con sforzo alla scrittura per comunicare a distanza in un mondo in cui le altre possibilità erano molto limitate, il punto e virgola ricorre a volte come segno passe-partout.

L’uso più recente
L’esempio più estremo è quello di Vincenzo Rabito – classe 1899, giunto alla licenza elementare a trentacinque anni, di professione bracciante – che alla fine degli anni Sessanta batte a macchina l’avventura della propria vita in un italiano tanto precario quanto intenso. La sua autobiografia – conservata nell’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano e oggi pubblicata da Einaudi – comincia così: «questa; e; la bella; vita; che; ho; fatto; il sotto; scritto; rabito vincenzo; nato; a chiaramonte; qulfe; (in via; corsica;) dallora; provincia; di; siraqusa; figlio; di; fu; salvatore; e; di qurriere; salvatrice; chilassa, 31. marzo; 1899».

È chiaro che l’eleganza grafica del punto e virgola – segno dissimmetrico, doppio, a due velocità – è risultata particolarmente feconda nei tempi di iconismo in cui viviamo. Lo vediamo in quella che è forse la reincarnazione più recente delle molte che questo segno grafico ha assunto nella sua lunga storia. Il diventare un simbolo di resilienza, da tatuarsi sul corpo: una traccia che aiuti a ricordare – a sé, agli altri – il superamento di un trauma, la sopravvivenza dopo una difficoltà. Anche questo, forse, rende questo piccolo segno particolarmente adatto alle vite che attraversiamo