Nel tardo pomeriggio del 16 maggio, il silenzio calato sulle strade di Diyarbakır è interrotto dal rumore dei caccia che, come ogni giorno, decollano dall’aeroporto militare. Sulla statale che taglia in due la capitale del Kurdistan in Turchia, insolitamente poco trafficata, un blindato presidia l’incrocio dove per il giorno successivo è stata indetta una manifestazione. È stato appena annunciato il verdetto del maxi-processo «Kobane»: 108 imputati tra gli esponenti di spicco del movimento curdo e della società civile progressista del paese.

IL PROCESSO verteva sugli eventi del 2014-2015, quando le forze curde Ypg/Ypj respinsero l’assedio dell’Isis nella città curdo-siriana di Kobane, a pochi chilometri dal confine. Durante le proteste contro il tacito appoggio del governo turco alla milizia islamista, nell’ottobre 2014, 46 persone furono uccise dalla polizia nel sud-est a maggioranza curda. Il processo di pace tra lo stato e il Pkk, in corso dal 2013, naufragò.

Una pioggia di condanne durissime si è abbattuta sugli imputati, 18 dei quali si trovano da anni in detenzione preventiva, mentre la difesa intonava «Viva la resistenza di Kobane» in kurmanci. Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag, all’epoca co-segretari del partito Hdp, incarcerati dal 2016, sono stati condannati rispettivamente a 42 anni e 30 anni e tre mesi.

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Alcuni imputati sono stati prosciolti: il noto parlamentare Sırrı Sürreya Önder è stato assolto, mentre Gültan Kısanak, all’epoca sindaca di Diyarbakır, e Sebahat Tuncel, ex parlamentare e attivista femminista curda, sono state rilasciate dopo anni di detenzione. Tanti altri sono stati condannati all’ergastolo.

Tra i numerosi capi d’accusa figurano il sostegno alla distruzione dell’«unità e integrità dello stato», l’istigazione a compiere atti criminali e manifestazioni fuorilegge e l’omicidio. Il Partito democratico dei Popoli (Hdp) è stato fondato nel 2012 con l’obiettivo di risolvere la questione curda attraverso un processo di democratizzazione, facendo appello ai movimenti progressisti del paese.

Sotto la guida di Demirtas, il partito ottenne il 13% alle elezioni del 2015, scavalcando la soglia di sbarramento del 10% e impedendo all’Akp di Erdogan di raggiungere la maggioranza assoluta. Anche dal carcere, Demirtas ha giocato un ruolo di primo piano, ottenendo l’8,4% alle presidenziali del 2018 con una campagna condotta dalla cella. La sentenza è vista come una vendetta nei confronti di un uomo e un movimento che rappresentano l’unica reale alternativa all’islamismo politico del regime e al nazionalismo kemalista dell’opposizione.

IL RISULTATO del processo, rimandato da anni, non era certo inatteso. Ma le centinaia di anni di detenzione comminate dai giudici hanno anche dimostrato la vacuità dei discorsi su una presunta «normalizzazione» che hanno preso a circolare in seguito alla pesante sconfitta elettorale dell’Akp alle amministrative di marzo.

Parlando a caldo davanti al penitenziario di Sincan, dove è stato emesso il verdetto, la co-segretaria del Dem (successore dell’Hdp, che rischia la chiusura per via giudiziarie) Tülay Hatimogulları ha dichiarato: «Come l’atto d’accusa è stato scritto nel palazzo e nel quartier generale dell’Mhp (Il partito ultranazionalista alleato di Erdogan, ndr), questa decisione è stata scritta dagli stessi centri. Non esiste più un sistema giudiziario in Turchia». Paragonando la sentenza ai processi delle giunte militari dei decenni passati, ha continuato: «Questa decisione ha dimostrato ancora che stanno dalla parte dell’Isis e del fascismo».

ÖZGÜR ÖZEL, segretario del principale partito di opposizione Chp, ha duramente criticato la sentenza. Ma nel 2016 il suo partito votò a favore della revoca dell’immunità parlamentare dei deputati filo-curdi accusati di «terrorismo», riconfermando la convergenza anti-curda tra l’alleanza islamo-nazionalista al governo e l’opposizione «socialdemocratica».

Anche per questo, le parole del co-segretario Dem Tuncer Bakirhan, che ha ringraziato il Chp e altri partiti della sinistra turca per l’appoggio, sono importanti: «Promettiamo che questa solidarietà e questa lotta continueranno in modo più ampio e più forte dopo la giornata di oggi».

Durante la lettura del lunghissimo verdetto , il giudice ha chiesto una pausa, mentre dalle prefetture delle province curde e alcune grandi metropoli venivano annunciati divieti di raduno e manifestazione per quattro giorni e blocchi agli ingressi. «Torneranno i kayyum, questi sono solo i preparativi», commenta davanti alla tv Eylem, insegnante, riferendosi ai commissari nominati da Ankara in sostituzione degli amministratori eletti nelle municipalità curde.

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Alle amministrative di marzo, a Diyarbakır il partito Dem ha riconquistato il comune metropolitano con il 64% dei voti. «Dobbiamo tornare in strada» aggiunge Melek, attivista Hdp che solo due giorni prima era in marcia per le strade della città in occasione nella Giornata della Lingua Curda. «Quanto durerà questo nostro silenzio?».

Ieri centinaia di persone si sono riunite a Diyarbakir, nonostante il divieto. Assediati da uno schieramento di polizia che ha impedito alla maggior parte dei manifestanti di arrivare, gli esponenti del Dem hanno letto un comunicato stampa: «Proprio come l’Isis è stato sconfitto a Kobane, questo giudizio sarà sconfitto di fronte al popolo curdo».