La tregua concordata lo scorso ottobre tra le due macroregioni libiche della Tripolitania (ovest) e Cirenaica (est) e i recenti progressi del Foro del Dialogo politico verso la formazione di un’autorità unificata in vista delle elezioni del 24 dicembre 2021 non devono trarre in inganno: la Libia de-gheddafizzata nel 2011 da otto mesi di bombe della Nato resta uno Stato fallito, travagliato da divisioni intestine, attraversato da migliaia di mercenari sostenuti da Stati stranieri e punteggiato da varie città-stato dove a dettar legge non sono le autorità politiche, ma le potenti milizie armate (più o meno islamiste).

L’ascesa e la continua minaccia alla stabilità del Paese da parte di questi gruppi – un tempo definiti «ribelli moderati» al punto da essere coccolati dalle cosiddette democrazie occidentali in chiave anti-rais – raccontano il fallimento del piano occidentale.

Le manifestazioni, che attraversarono il Paese nel 2011 sull’onda delle rivolte che scuotevano l’intero mondo arabo, si caratterizzavano più come proteste tra clan e tribù (spesso prezzolati da ingenti elargizioni straniere) che come rivendicazioni sociali.

Del resto, dati della Banca mondiale nel 2010, la Libia pre-guerra Nato manteneva «alti livelli di crescita economica», con un aumento medio del Pil del 7,5% annuo e registrava «alti indicatori di sviluppo umano». Certo, c’erano disparità, ma il tenore di vita dei libici era notevolmente più alto di quello degli altri Paesi africani.

Ma il «dittatore» Gheddafi (a fasi alterne alleato e nemico dell’Occidente) doveva essere abbattuto: nel 2016 Wikileaks rivelò le mail dell’allora segretaria di Stato Usa Hillary Clinton in cui emerse come uno degli scopi del conflitto del 2011 fosse bloccare il piano del rais di creare organismi finanziari autonomi dell’Unione africana e una moneta in alternativa al dollaro e al franco.

La bugia della «rivoluzione libica» durò però poco: l’11 settembre 2012 i qaedisti di Ansar al-Sharia assaltarono a Bengasi due strutture governative degli Usa uccidendo 4 statunitensi, tra cui l’ambasciatore Stevens.

Uno schiaffo per l’amministrazione Obama e per l’intera Europa (soprattutto per Francia, Inghilterra e Italia in prima linea nella guerra Nato) che ora guarda con preoccupazione alla sponda sud del Mediterraneo dove, in un Paese fallito, a dettare legge è il “sultano” nemico-amico Erdogan.