Il governo di Giorgia Meloni, l’esecutivo più a destra che l’Italia abbia conosciuto nei suoi 160 anni di storia unitaria dopo quello di Benito Mussolini, nasce a tre punte: quella nazionalista in continuità missina, quella leghista di natura intimamente secessionista e quella dell’ottuagenario ex cavaliere che oggi appare però assai spuntata.

Le prime due destre, malgrado le reciproche promesse di fedeltà al patto che le tiene insieme, potrebbero entrare presto in rotta di collisione. Qualche avvisaglia viene dal Veneto del governatore Luca Zaia che lamenta lascarsa presenza nel gabinetto Meloni di ministri provenienti da quella regione, la stessa da dove arriva sempre più pressante la richiesta di maggiore autonomia dal potere centrale.

La Lega, come mostra la recente costituzione del “Comitato Nord” da parte di un redivivo Umberto Bossi, è per così dire costretta a rilanciare con forza l’obiettivo dell’autonomia differenziata per tentare di riconquistare, almeno nelle regioni settentrionali, parte dello spazio elettorale andato perso a favore degli scomodi alleati di Fratelli d’Italia.

Giorgia Meloni si è sin qui prudentemente mantenuta in equilibrio non ripudiando apertamente il progetto leghista ma piantando sul terreno della riforma due nodosi paletti. Primo: l’elezione diretta del Capo dello stato che, secondo i suoi intendimenti, dovrebbe fungere da contrappeso a una più marcata regionalizzazione della Repubblica; secondo: l’uniforme estensione a tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni erogate dal pubblico.

Tutti sanno che le regioni del Sud non solo sono ben lontane da quei livelli nelle infrastrutture di base, nella scuola e nella sanità ma spesso, come avviene ad esempio in Calabria, non sono neppure in grado di garantire il servizio sanitario in sé. Se Meloni dovesse, pertanto, ribadire la sua pregiudiziale l’autonomia differenziata non potrebbe avere corso e, semmai, più che trasferire maggiori risorse dallo stato centrale alle regioni del Nord che le reclamano per incrementare la qualità dei servizi offerti ai loro cittadini, bisognerebbe investire per potenziare e in qualche caso addirittura fondare le strutture di cui difettano i meridionali.

L’attuazione dell’autonomia differenziata è, dunque, il primo vero banco di prova delle destre al governo e potrebbe persino segnare la fine dell’esperienza Meloni. Sarebbe, tuttavia, ingenuo cullarsi in questa eventualità perché il totem dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica è così seducente da poter travolgere ogni prevista resistenza. Nel caso, tuttavia, i partiti della maggioranza dovrebbero fare ancora ricorso, come già per l’elezione della seconda carica dello stato, alla disponibilità di volenterosi esterni alle forze di governo. Alla prova dei fatti saranno messe allora anche le opposizioni.

Quanti “riformisti” ci sono tra i parlamentari del cosiddetto terzo polo e dello stesso Partito democratico? Quanti di loro sono disponibili a trasformare la Repubblica italiana in una federazione di quasi-staterelli guidata da un presidente eletto direttamente da un popolo sempre più diviso da profonde diseguaglianze territoriali? La nave del governo potrebbe sbattere contro gli scogli dell’autonomia differenziata ma se così non sarà quella che oggi chiamiamo per differenza opposizione di centro-sinistra naufragherà e non tutti i profughi raggiungeranno allora la stessa terra d’approdo.