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Potter, alla ricerca del Bello taurino

Paulus Potter, "De Stier" (Il giovane toro)Paulus Potter, "De Stier" (Il giovane toro), part., 1647, L’Aja, Mauritshuis

Animal House, Seicento olandese: il toro di Paulus Potter Di dimensioni colossali, il bovino, esposto nel museo de L’Aja, è al primo sguardo un capolavoro di realismo: si tratta in verità, come nei maestri antichi, di una sintesi ideale; è il prodotto di una lente intercambiabile, insieme grandangolo e teleobiettivo

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 11 agosto 2024

Il toro di Paulus Potter è considerato uno dei capolavori dell’arte olandese del Seicento ed è uno dei dipinti raffiguranti animali più noti al mondo. Realizzato nel 1647 per decorare la sala principale di una residenza de L’Aja, entrato prestissimo nelle collezioni reali degli Orange, prelevato dalle truppe napoleoniche, esposto nella Mauritshuis al suo ritorno nei Paesi Bassi, quest’opera è speciale e unica per molte ragioni. La prima è tutta interna al suo genere, è un pezzo chiave della pittura animalier: una specializzazione che trova terreno fertile nella prima metà del Seicento e che raggiunge il suo apice espressivo, e di conseguenza un ampio mercato, proprio in quell’Europa colta che tifa per Montaigne o per Cartesio sul posto che gli animali dovrebbero occupare nel sistema dei valori condivisi. Il pittore è giovane quando realizza il dipinto, ha ventidue anni ed è ancora tutto da dimostrare; non sa che morirà a ventotto anni di tubercolosi, con un catalogo di quasi cento opere, in larga parte dedicate a greggi, bovini e animali.

L’invenzione unica de Il toro è connessa al formato eccezionale di questa tela. Con le sue dimensioni di 236,5 x 341,5 il dipinto di Potter copre ora un’intera parete del museo de L’Aja. All’inizio l’artista non avrebbe voluto ritrarre che l’animale protagonista, il toro, ma poi, per un motivo a noi sconosciuto, forse per desiderio della committenza, cambia idea, aggiunge 40 e 60 cm di tela per ogni parte e costruisce un contesto intorno al bovino.

Questi si staglia enorme davanti allo sguardo del visitatore con il suo straordinario realismo, una caratteristica che rende particolarmente perturbante l’opera per chi la osservi. Il critico d’arte francese Eugène Fromentin, che pur non apprezzava particolarmente il pittore (amando la sintesi di Vermeer), descriveva così il senso del suo naturalismo: «L’occhio straordinariamente esatto di Paul Potter, la cui energia penetrante nulla poteva stancare, coglieva ogni dettaglio, scrutava, esprimeva fin troppo attentamente, non si confondeva mai, ma non smetteva mai di lavorare».
Ma se questa osservazione è veritiera, per eseguire il suo quadro Potter si tenne davanti uno specifico esemplare di toro? Il suo realismo è sinonimo di un rapporto con l’animale in posa? Se cominciamo a farci queste domande, le risposte potranno riservarci alcune sorprese.

Dell’interesse per le greggi e per gli animali di Potter sappiamo dalle fonti della letteratura artistica nederlandese, in particolare dal Groote Schouburgh der Nederlantsche Konstenaars en Konstenaressen (1718-’21) di Arnold Houbraken. La vedova del pittore aveva dichiarato di «non aver mai visto il marito oziare; che quando aveva un’ora o due da trascorrere con lei, per fare una passeggiata, lui prendeva sempre un taccuino con sé, utile se avesse visto qualcosa». Durante le sue escursioni nella natura addomesticata dei dintorni di Delft e dell’Aja, fra stalle e fattorie, Paulus Potter aveva disegnato su foglietti di un massimo di 10 x 15 cm, a grafite, a gessetto, sagome di animali domestici, al pascolo o in riposo, di tenere caprette, pii bovi, ma anche di cani dispettosi e pulciosi ritratti rapidamente in tutte le pose, di fieri cavalli muscolosi.

Bartholomeus van der Helst, “Ritratto di Paulus Potter”, 1654, L’Aja, Mauritshuis

È abbastanza per parlare de Il toro di Potter come del ritratto di un singolo animale? Come del segnale di un particolare accostamento dell’artista alla realtà bovina? No, certamente no. A ben vedere, infatti, al raggiungimento di effetti naturalistici molto accentuati, palesi nella raffigurazione delle mosche sul manto dell’animale (da sempre sigillo di trompe l’œil), così come nel naso colmo di umori della mucca accucciata accanto, non corrisponde affatto un processo di mimesi prodotta con la pittura. La pittura qui non è uno specchio, come potrebbe superficialmente apparire, ma è il prodotto di una lente intercambiabile, che è al contempo grandangolo e teleobiettivo, è il frutto di un processo di meticolosa e studiata selezione del reale.

Il toro di Potter ci guarda dritto negli occhi, come fanno gli umani, e come lui agiscono le altre presenze della scena: la mucca da terra e l’ariete stante, la pecora della brughiera di Drenthe. Quest’ultima, sdraiata con il suo agnellino, è una pecora da mungitura, che gli zoologi riconoscono dalla sua coda liscia e glabra. Il pittore ha restituito con abilità straordinaria e cura indefessa i valori visivi dei loro velli. La pelle della testa del toro è riprodotta nei minimi dettagli, con effetti di una matericità sorprendente. I tratti fisiognomici del fattore, l’unico umano in scena, appaiono in questo contesto quasi grotteschi perché è subito chiaro all’osservatore che il sorriso sciocco, inespressivo, del contadino è assimilabile e qui assimilato a quello degli animali, e allora si pensava che la somiglianza tra l’uomo e la bestia fornisse una seria prova scientifica sulla natura di entrambi. Si capisce dunque da quale parte fosse Potter nella diatriba ancora oggi attualissima tra specisti e anti-specisti. E se non basta, si pensi all’incredibile sua tela probabilmente coeva con La punizione del cacciatore dell’Ermitage, un dipinto in cui, in vignette, con l’aiuto delle Metamorfosi di Ovidio, sono gli animali a prendere il potere e a condannare alla morte l’uomo cattivo.

Ne Il toro anche il contesto spaziale è frutto di un trattamento da disambiguare. Sopra gli alberi all’orizzonte, con un’impostazione prospettica dilatata, si intravede – minuscola – la sagoma della chiesa di Rijswijk, un paesino posto tra L’Aia e Delft. Il grande dell’inquadratura aperta confligge con il piccolo della resa telescopica delle distanze.

Fino a qualche tempo fa si riteneva che Paulus Potter avesse dipinto qui un esemplare stupendo: un torello da esposizione. Tuttavia, le discrepanze profonde e misurabili tra le diverse parti del corpo dell’animale lo rendono impossibile. La giogaia cadente e le corna indicano un’età di due anni. Non bastasse, a complicare le cose è che anche i sei denti dell’animale indicano un toro di tre o quattro anni. La muscolatura dei quarti anteriori è ben sviluppata, mentre quella degli arti posteriori appare molto meno. Inoltre, la prospettiva è costruita in modo errato. I quarti anteriori e posteriori sono mostrati con un angolo che vira rispetto al piano dell’immagine, mentre il busto è parallelo al punto di osservazione. L’unica conclusione possibile è che l’artista abbia composto il suo dipinto Il toro della Mauritshuis partendo da una serie di studi preliminari condotti su animali diversi e abbia scelto le parti migliori.

Cosa ricorda questo modo di procedere? Basta tornare alla letteratura artistica del passato e a farci comprendere queste scelte vengono in soccorso almeno due testi. Intanto, per il principio di selezione dal naturale, per quel cogliere fior da fiore e accostare i risultati nell’opera finita, è l’Historia naturalis di Plinio il vecchio la fonte illuminante. Con il suo Toro Potter ha emulato i pittori antichi, ha fatto ciò che Apelle aveva realizzato con la sua Venere, la sua bellezza è frutto ideale di un assommarsi di elementi straordinari presenti in molte giovani belle. Ma non è tutto. Nello scritto teorico sulla pittura di Karel van Mander (1604 e 1618), molto letto dagli artisti perché posto in cima al l’Het Schilder-boeck, Den grondt der edel vry schilder-const (i Principi della pittura), è ricordata la vicenda del pittore greco Pausias, che dipinse un bue ingannevolmente reale che guardava lo spettatore dritto negli occhi mentre il suo corpo era visto di lato. Il riferimento a questo testo appare qui riattualizzato, facendo del giovane Potter un novello Pausias, in anni in cui il talentuoso Gerard Dou veniva chiamato «novello Parrasio». Ecco allora che la bestia realisticamente evocato con straordinaria potenza di mezzi è un prodotto culturale, una selezione ideale: la pittura ancora una volta supera la natura, ingannandoci.

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