«Porpora», scatti ravvicinati di quotidiana politica
Intervista Marcasciano e Lina Pallotta raccontano il libro di fotografie edito da Nero, dagli anni '90 a New York alla vita nei movimenti
Intervista Marcasciano e Lina Pallotta raccontano il libro di fotografie edito da Nero, dagli anni '90 a New York alla vita nei movimenti
Sguardi. Contorni sfocati. Paesaggi urbani e rurali. Dissolvenze. Cori di corpi. Dettagli. Figure in transito. Un volto torna, in quasi tutte le pagine, in bianco e nero. È un viaggio, Porpora (Nero Edizioni), monografia fotografica di Lina Pallotta su Porpora Marcasciano, scrittrice, storica voce e attivista del movimento trans italiano. Un viaggio intimo ed emozionale, attraverso epoche, identità, pratiche di liberazione, auto affermazione, sconfinamenti; luoghi fisici e dell’anima, bellezza che decostruisce canoni: non conforme. Strati, frammenti di vite individuali e collettive in trecento pagine dense, con interventi scritti della protagonista, di Kae Tempest, del fotografo Allen Frame, della studiosa Raffaella Perna. Le foto, in gran parte analogiche, sono state scelte da un archivio immenso: oltre trent’anni di scatti, dagli anni ’90 ad oggi, di Lina Pallotta a Porpora. Alla sua vita, ai suoi affetti, ai suoi percorsi, al suo mondo. Alcune, iconiche, le conosciamo come copertine dei suoi libri; altre sono emerse da un lungo lavoro di scavo con la cura di Michele Bertolino che ha allestito la mostra Lina Pallotta: volevo vedermi negli occhi visitabile fino al 15 ottobre al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. Molte le presentazioni: Zurigo, Roma, New York, Torino. Abbiamo ascoltato le loro voci.
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Porpora Marcasciano: «Quella di Meloni è una destra fondamentalista»Porpora Marcasciano: Intorno al ‘76. Studiavamo a Napoli, io sociologia, Lina medicina. Ci conoscevamo di vista, frequentavano gli stessi ambienti. Ci siamo presentate il giorno del processo a Mariapia Vianale dei Nap, davanti al tribunale. Io volevo entrare, lei stava uscendo, le chiesi com’era la situazione, iniziammo a parlare, stingemmo un’amicizia che dura ancora. Siamo andate a vivere insieme; anche quando mi trasferii a Roma, avevo le chiavi di casa sua a Napoli.
Quando nasce l’idea del libro?
Lina Pallotta: È un progetto che ha sempre seguito un ritmo di libertà, senza imposizioni, scadenze. Ho iniziato a fare foto a New York nell’88. Mi ero iscritta all’International Center of Photography, ho iniziato a fotografarla nel ’90, ma non avevo in mente un progetto specifico su Porpora. Veniva a trovarmi a NYC almeno una volta all’anno, quando tornavo in Italia stavo da lei.
Porpora, cosa significano per lei le foto di Lina?
P.M.: La macchina fotografica era un elemento quasi scontato nel nostro spazio fisico. Lina è un’amica, una sorella, è entrata nella mia famiglia, io nella sua: ci siamo intrecciate in una relazione di completa fiducia, abbiamo attraversato periodi storici e momenti eccezionali. Per me è una referente culturale e filosofica, è la persona che conosco da più tempo, che viene dal mio stesso contesto – entrambe siamo di due paesi della provincia di Benevento – mai rinnegato. Le sue foto mi hanno rappresentata e, in alcuni momenti, anche sovra determinata con quella potenza che solo una persona con cui sei in una relazione intima può avere. È come una sorta di colonna vertebrale di quello che faccio, un filo conduttore visivo, una sponda rispetto al mio procedere, una sicurezza.
Questo lavoro, di lunga posa, nasce da una narrazione interna, un punto di vista che quasi si sovrappone al soggetto.
L.P.: La mia base è un approccio documentaristico che parte da un punto di vista personale e soggettivo. Non c’è costruzione. Fotografare Porpora in quel modo significa
affermare che il personale è politico. Questo lavoro nasce da un accesso, cresce all’interno di una relazione. La relazione è parte integrante del mio essere fotografa. Porpora porta i segni della sua specificità nel corpo, non c’è separazione nella vita e non c’è separazione nel mio modo di affrontarla. Lei sfugge, non si autorappresenta in un personaggio. Ha sempre avuto la capacità di essere diretta, con c’è quel passaggio tra immagine rappresentazione.
Come ha scelto tra le tantissime le immagini?
L.P.: La prima selezione l’ho fatta da sola, scelgo istintivamente le foto che secondo me funzionano bene. Ho proseguito con Michele Bertolino, in un processo di dialogo costante. La sequenza finale non segue una linearità ma un flusso di emozioni, forme, spazi mentali. L’unico obiettivo concettualmente chiaro era costruire uno spazio psicogeografico delle emozioni. Allo stesso modo, abbiamo deciso di inserire un archivio visivo nell’appendice, piuttosto che una lista di dati e eventi. Mi sembrava giusto connettere la storia di Porpora con quella di costruzione e avanzamento del movimento: è la costante di tutta la sua vita. Porpora è un’artefice, io una partecipante. L’archivio compensa una serie di mancanze nelle mie foto – quando ero a NYC – rimane in Italia e si concentra su elementi fondanti della vita di Porpora, con un occhio privilegiato al mondo trans.
Che rapporto c’è tra immagini e politica?
L.P.: Penso che le fotografie possano influenzare la cultura, la percezione del mondo, dei significati che diamo alle cose che viviamo, di come le accettiamo: da questo punto di vista, anche il mio fotografare il privato, il quotidiano ha come fine quello di cambiare la percezione delle persone e delle cose. È un processo lento ma sui tempi lunghi può essere vincente. Per realizzare una possibile descrizione delle persone e del mondo devi includere momenti diversi, cercando di cogliere la vastità delle possibilità dell’essere umano, non puoi fotografare un solo momento: più situazioni fotografi, più la descrizione, la percezione e quindi anche la profondità diventa ampia. Porpora include moltitudini, non potevo che fare così.
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