Pompon: ghiacci eterni, cordialità déco
Animal House, Novecento francese: l'orso di François Pompon Fu solo nel 1922, con l’exploit dell’«Ours blanc», che l’«artigiano» borgognone ebbe il meritato riconoscimento: aveva 63 anni. Liscio, torpido e flessuoso, il suo mammifero è un esempio straordinario di epurazione plastica, in parallelo alle bestie platoniche di Brancusi...
Animal House, Novecento francese: l'orso di François Pompon Fu solo nel 1922, con l’exploit dell’«Ours blanc», che l’«artigiano» borgognone ebbe il meritato riconoscimento: aveva 63 anni. Liscio, torpido e flessuoso, il suo mammifero è un esempio straordinario di epurazione plastica, in parallelo alle bestie platoniche di Brancusi...
Scrisse J. J. Sweeney della scultura animalier di Brancusi: «Non la copia di una foca nel marmo – né una foca di marmo, ma una foca-marmo». La formula si adatta meglio non si potrebbe, pur in un diverso ordine del visivo, alle bestie di François Pompon, soprattutto al celebre Ours blanc. Brancusi: «Quando vedete un pesce, non pensate alle sue squame, ma alla rapidità del suo movimento, al suo corpo… visto attraverso l’acqua»; Pompon: «Al Jardin des Plantes, io seguo gli animali quando camminano (…). Quel che è interessante è l’animale che si muove». Ricercare, fissare le linee di forza del movimento, la curva dinamica di là dall’aneddoto, fu ossessione di entrambi, ed entrambi vi si adoperarono con modalità curiosamente rassomiglianti, nella tecnica a taglio diretto, nella ripresa continua e ossessiva dello stesso motivo, trasformato in una specie di laboratorio dell’epurazione. Per Pompon come per Brancusi vale l’osservazione di Christian Zervos sulla finalità di ricerca del rumeno, non l’astrazione ma la potenza vitalista della forma liberata, l’evidenza strutturale e plastica.
Acquisita la lettura in chiave organica dell’arte di Pompon – Sophie Lévy vi ha sceverato recentemente, 2022, tutti gli ingredienti-base della linea in cui si dispongono, a partire da Brancusi, Arp, Moore, Hajdu… –, resta la sua posizione più che periferica. Alla tipica ‘sofferenza’ dell’artista a cavallo delle epoche, dell’inclassificabile, si aggiunge, nel suo caso, l’unicità della vicenda biografica, il clamoroso ritardo del riconoscimento pubblico, che arriva solamente nel 1922, quando espone al Salon d’Automn, gesso di dimensioni colossali, l’Orso bianco – la versione oggi al Musée d’Orsay, in pietra di Lens, è successiva. Pompon ha ormai 67 anni, la maggior parte trascorsi in veste di praticien presso scultori più o meno affermati: Jean Dampt, Antonin Mercié, Alexandre Falguière e soprattutto, dal 1890, Auguste Rodin (di cui nel ’93 divenne chef d’atelier) e, dal ’96, per circa vent’anni, René de Saint-Marceaux.
Lungo le varie stagioni del suo anonimato – che non era tale, evidentemente, per i maestri che lo utilizzavano, riconoscendo in lui la precisione e l’amore della stupenda tradizione artigiana della vecchia Francia – regalò «all’avvenire un credito illimitato di vacche magre», come si espresse nel 1928 il suo primo biografo Robert Rey, conservatore del musée du Luxembourg. Ma perché non riconoscere infine, rovesciando la prospettiva con le parole dello stesso Pompon, che fu proprio «il gusto, l’ordine, il senso di equilibrio nel mestiere come nella vita» trasferitogli dal padre, falegname-ebanista nella minuscola, borgognona Saulieu, dove lo scultore era nato nel 1855, a nutrire con la lentezza necessaria gli sviluppi del suo modernissimo esito?
L’esito, l’Orso bianco, con il suo volume integralmente chiuso, la superficie liscia, l’andamento pesante, torpido e flessuoso, interpretava al meglio, quando apparve, le nuove istanze delle Arts Déco, che di lì a poco avrebbero trionfato nella rutilante Expo del 1925. Non per caso il capolavoro di Pompon vi figurava in uno degli ambienti dell’Hôtel du collectionneur arredati da Jacques-Émile Ruhlmann, fra gli ebanisti francesi del tempo il massimo dell’eleganza, della semplicità, del rigore, una specie di Riesener – è stato detto – degli anni venti. Sorta di parallelo in scultura dell’altro grande animalier, ‘in nero pantera’, Paul Jouve, Pompon entrava a pieno titolo fra i maestri déco: il suo caso spiega come certe formule dello Stile 1925 si potessero adattare virtuosamente alla ricerca di purezza del modernismo incalzante.
D’altronde, la difficoltà ad ammettere Pompon nel canone modernista è sicuramente frutto del pregiudizio sui ‘generi’, sentiti in assoluto come cascame accademico. Non fu favorito dall’essere animalier in un secolo che aboliva in via definitiva le classi tematiche. Per gli happy fews, al contrario, il fascino di Pompon risiede proprio nell’ibrido della sua posizione, che interpreta secondo categorie e modalità antiche le urgenze del nuovo. Queste urgenze, del resto, gli si manifestano in modo endogeno, come sviluppo naturale, più che quale rivelazione dall’esterno: non che egli fosse insensibile ai rapidi e traumatici sviluppi del quadro estetico generale, su cui fiorivano le prime avanguardie, ma sembra averli seguiti, accompagnati, traguardati, con la calma radiosa, lo spirito geologico, la pazienza un po’ indolente del suo Orso. Certo è che, quasi distrattamente, a cominciare dagli anni dieci si liberò dell’impressionismo ottocentesco di Rodin, del fratto, movimentato, cavo, in cui la luce trova esaltazione lirica, per accedere a un’idea plastica, non estranea al linguaggio japonisant, fondata su piani meno profondi, più compatti, lisci, continui, e ottenuti dal levigare indefesso, da cui la luminosità specchiante che, di nuovo, lo accosta a Brancusi.
Inizialmente focalizzatosi, nel poco tempo di lavoro autonomo che gli concedeva il ruolo ancillare, sulla figura umana – sia ritratti, sia soggetti sacri (Sainte Catherine martyre, 1888) o realistico-allegorici (Cosette, da Hugo, 1908) –, Pompon, che in quella produzione mostrava più la sapienza operativa che lo stile personale, scoprì nella morfologia animale schemi più liberi, meno obbliganti. La verticalità, il naturalismo del corpo umano impedivano alla sua fantasia sintetica di liberarsi, di perseguire il fine, l’economia assoluta dei rapporti di massa, la linea funzionale. L’interesse per il mondo delle bestie lo matura, probabilmente, a contatto con Pierre Rouillard, uno dei suoi professori alla Petit École di Parigi, animalier monumentale nella tradizione di Barye. È lui, sembra, ad aver spinto Pompon a frequentare, a Parigi, la Ménagerie du Jardin des Plantes, dove lo scultore borgognone poté integrare, gli occhi rapiti da una ricca varietà di forme esotiche, la conoscenza anatomica degli animali, limitata finallora alle nozioni ricevute dalle sue origini campagnardes. Altra figura-chiave in questo passaggio il fonditore Hebrard, che incoraggiò Pompon a specializzarsi.
Se il commovente Maurice Prost, un braccio perduto in guerra, modellava le sue bestie aiutandosi con un martello pneumatico appoggiato alla spalla, il nostro si ingegnò a realizzare un banco da lavoro portatile dove, al Jardin, schizzava in argilla il modello scelto: «Io faccio l’animale con quasi tutti i suoi fronzoli… E poi, poco a poco, elimino, in modo da non conservare che l’essenziale». Predicava che l’essenziale non potesse trarsi se non dalla visione della bestia dinamica e da lontano, visione impressa che governava poi il processo compendiario in atelier.
Sfogliando il catalogue raisonné pubblicato in occasione della mostra digionese del 1994, la più importante dedicata a Pompon, seguiamo l’evoluzione del suo bestiario: animali di campagna, animali esotici. Eccezionale il pensiero di sintesi scolpito nelle pantere e negli uccelli… quell’oca a Saulieu osservata in controluce, «inguainata di luce», semplificazione rivelata… Sino alla fine degli anni dieci il corpus è limitato ai piccoli formati – in bronzo, in pietra, in marmo –, dove è persino più evidente, a fronte della massiccia speculazione ‘editoriale’ seguita alla morte dell’artista (nel 1933, a 78 anni), la cura maniacale del singolo pezzo, la qualità della cesellatura e della patinatura del bronzo – le patine verdi, macchiate d’oro, che Pompon si compiaceva di associare ai coleotteri!
La guerra lo aveva lasciato disoccupato; la scomparsa della moglie, solo. Una congiuntura di affetti – Robert Rey; il giovane pittore René Demeurisse, incontrato nel ’19, che sarà suo esecutore testamentario; lo stesso Bourdelle – creò le condizioni, innanzitutto psicologiche, perché egli decidesse di esprimersi in grande, di diventare l’animalier in maestà. Per il salto di scala, decise di puntare sull’Orso bianco, che aveva modellato già nel ’10 e trasferito in bronzo dopo il ’18. In una foto d’epoca il muso affilato, pisciforme, ammirato da Colette, dà il benvenuto sulla porta dell’atelier parigino, rue Campagne-Première, Montparnasse.
Il successo tardivo, che gli permise di fare scuola tra i giovani animalier (lo svizzero Armand Petersen!), non scosse più che tanto l’onesto artigiano Pompon. Lo mise in sospetto il salto inatteso nella modernità. Che il suo mammifero dei ghiacci trovi giustificazione fra le sculture più radicali dell’epoca, a confronto, si è visto, con il repertorio animale, ma platonico, di Brancusi, è fatto criticamente assodato: l’Orso resta però, in fin dei conti, sospeso nel tempo, estraneo alla vulgata modernista, oggetto cordiale e misterioso giunto a visitarci e ad ammonirci dall’alba del mondo.
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