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Politiche industriali, il governo ci rinuncia per (non) fare cassa

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Privatizzazioni L’ideologia secondo cui il settore privato, capace ed efficiente, è inequivocabilmente migliore del settore pubblico, spendaccione e improduttivo, è ormai smentita dai fatti e dalla storia

Pubblicato circa un anno faEdizione del 18 ottobre 2023

Per finanziare il taglio del cuneo fiscale e introdurre la cosiddetta «flat tax» senza aumentare il debito pubblico, il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti presentando la legge di bilancio ha annunciato privatizzazioni per circa venti miliardi di euro.

Dietro alla scusa del fare cassa, si cela però un’impostazione cieca e ideologica che non tiene conto del fallimento delle politiche di privatizzazione degli anni Novanta e Duemila, periodo in cui l’Italia è passata da quarta potenza economica mondiale a Paese ormai strutturalmente in declino.

L’ideologia secondo cui il settore privato, capace ed efficiente, è inequivocabilmente migliore del settore pubblico, spendaccione e improduttivo, è ormai smentita dai fatti e dalla storia, e considerata come vecchia e superata nella maggior parte dei Paesi industrializzati. Non in Italia, dove è stata fatta propria dalla quasi totalità della classe dirigente di qualsiasi colore politico, tanto da non dover nemmeno più essere esplicitata.

Tutto questo mentre i governi di mezzo mondo – dalla Cina agli Stati uniti – scommettono oggi sulla crescita dei propri Paesi tramite politiche industriali attive e il potenziamento dei propri «campioni nazionali». In Francia, per fare un esempio vicino a noi, lo Stato ha pochi mesi fa rinazionalizzato il colosso energetico Edf, giustificandosi con l’obiettivo dell’autosufficienza energetica per mezzo di massicci investimenti nel nucleare e nelle rinnovabili.

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Venti miliardi di euro, peraltro, non sono pochi, e non è chiaro ad oggi dove il governo abbia intenzione di recuperarli. Si parla di Monte dei Paschi di Siena, dalla cui vendita potrebbero entrare circa due miliardi di euro. Si spera che il governo non voglia toccare i nostri gioielli – in termini di fatturato, di investimenti, di posti di lavoro, ma anche di «sovranità nazionale» – ovvero Leonardo, Fincantieri, Ferrovie dello Stato, Enel, Eni. Per il resto rimangono principalmente le municipalizzate e il trasporto pubblico locale. Poca roba in termini di entrate, nonché un disastro annunciato in termini di depotenziamento dei servizi pubblici.

Queste stime sono quindi a dir poco fantasiose, a meno che non puntino sullo smantellamento definitivo del sistema Paese. E del resto è rimasto ben poco da privatizzare. Tra il 1992 e il 2007 l’Italia ha venduto ai privati circa 160 miliardi di dollari di asset industriali, con l’idea di rafforzare il tessuto produttivo del Paese.

Come sappiamo, è stata invece una catastrofe. Le imprese più esposte alla concorrenza sono andate incontro a débacle industriali – si pensi a Ilva, a Italtel, più tardi ad Alitalia. Le imprese monopolistiche, che rappresentavano fino ad allora un’importante fonte di finanziamento dei conti pubblici – Autostrade o Telecom Italia – sono divenute invece fonte di profitto per pochi. A livello locale, quei pochi furono spesso e volentieri amici degli amici di chi stava al potere. Ma in fondo il governo attuale è anche in questo degno erede della stagione berlusconiana, stretto tra l’incudine del debito pubblico e il martello delle elezioni europee alle porte, non riesce a pensare ad altro che dismettere quel poco che ci resta.

E dire che l’Europa davanti al debito dei Paesi come Italia, Francia e Spagna ha cambiato ormai da anni atteggiamento. Resta il no al debito «cattivo», quello delle mancette, delle misure una tantum, delle spese che si perdono in mille rivoli. Un debito «buono» finalizzato agli investimenti delle due grandi transizioni – quella energetica e quella digitale – sarebbe invece sicuramente tollerato, se non addirittura visto di buon occhio da Bruxelles e di conseguenza dai mercati.

Servirebbero però per questo un indirizzo e un coordinamento della spesa, degli investimenti e delle imprese a partecipazione pubblica. Ovvero quello che un tempo si chiamava politica industriale. Quest’ultima consentirebbe all’Italia da un lato di ritrovare il cammino verso la crescita tramite ricerca e innovazione, con investimenti di lungo periodo che solo il pubblico può permettersi di finanziare. Dall’altro, nel breve periodo permetterebbe di sostenere la domanda interna evitandoci di sprofondare nello spettro della recessione.

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