Pierre Jourde, distrazioni mobili e nevrosi famigliari
PORDENONELEGGE Intervista con lo scrittore francese ospite il 21 a «Pordenonelegge». «Il viaggio del divano letto», pubblicato in Italia da Prehistorica Editore, è il suo ultimo romanzo. «Gli oggetti sono l’immagine della realtà stessa, in tutta la sua inaccessibilità, chiusura e radicale estraneità all’umanità»
PORDENONELEGGE Intervista con lo scrittore francese ospite il 21 a «Pordenonelegge». «Il viaggio del divano letto», pubblicato in Italia da Prehistorica Editore, è il suo ultimo romanzo. «Gli oggetti sono l’immagine della realtà stessa, in tutta la sua inaccessibilità, chiusura e radicale estraneità all’umanità»
Pierre Jourde, con ll viaggio del divano letto (pp.240, euro 18), pubblicato da Prehistorica Editore nella traduzione di Silvia Turato, ci consegna un moderno romanzo picaresco in cui due fratelli e la moglie di uno di loro partono a bordo di un furgone Citroën Jumper bianco in compagnia di un divano letto e una coppia di vecchie poltrone che fanno pendant. A suggellare un fine settimana pasquale la triade recalcitrante parte da Créteil, nell’Île-de-France, alla volta di Lussaud – un piccolo paese nel dipartimento del Cantal, in Alvernia, la regione dei vulcani – per volere inderogabile della madre dei due fratelli. Ella prende la decisione, al decesso della propria madre, di far trasportare la reliquia di quel bene mobile nella casa di famiglia e di far percorrere per l’ennesima volta un tragitto che i suoi figli, Pierre e Bernard, sono soliti fare fin dall’infanzia.
«Il trasporto del divano costituiva l’apoteosi della maledizione degli oggetti che mi perseguitava dal giorno della mia nascita», ci avverte fin dalle prime pagine l’io narrante, perché fin da subito ci accorgiamo che in effetti di oggetti il libro è davvero disseminato. Tutti i capitoli, tranne il primo, rinviano infatti a oggetti la cui forza simbolica si mostra appena levato il catafalco ingombrante dell’apparente utilità insita negli oggetti di consumo. «La conchiglia castratrice» e «Il bidone tentacolare» ci conducono direttamente alle sedute de «Il divano letto devastatore», grazie a cui le nevrosi, dopo essere stare a riposare in un decanter, si levano e affiorano insieme ai ricordi di vicende familiari, odi, incomprensioni e idiosincrasie. Si palesa così la relazione conflittuale tra i due fratelli, ma anche quella tra la madre e la nonna: «Nei confronti di mia madre, mia nonna si era mostrata, per tutta la vita e in particolare alla fine, di una paziente, inventiva e impavida cattiveria. Cosa che rendeva ancora più necessaria la pietà filiale. Mia madre si comportava come se mia nonna fosse stata davvero una buona madre. Era il suo modo di immaginare che la nonna l’avesse in qualche modo amata, suppongo».
Il romanzo di Pierre Jourde pullula di disquisizioni introspettive, spesso venate di cinismo, a rincalzare la struttura narrativa del testo. E nei capitoli-racconto gli oggetti, quando si fanno depositari dei significati che gli esseri umani gli attribuiscono, diventano le famigerate cose. Essi assumono il ruolo di veri e propri personaggi e come tali sembrano divertirsi – giostrando molti aspetti dell’esistenza del protagonista-narratore e anche della sua famiglia, a significare il peso di quelle che sono diventate delle propaggini di cui ci sembra di non poter fare più a meno, a meno di essere disposte e disposti a risignificare una parte della nostra identità. Le cose, insieme a un passato familiare che Pierre Jourde ritratteggia all’insegna della paralisi e della palude in cui si rischia di sprofondare, ci accompagnano dunque in questo viaggio in cui sorridere, o meglio ghignare, della sagacia amara con cui il mondo delle relazioni è abbozzato.
Pierre Jourde sarà ospite di Pordenonelegge sabato 21 (ore 10 presso Confindustria Alto Adriatico); presenta Federica Augusta Rossi. Nei giorni seguenti lo si potrà ascoltare a Padova (il 22 alla Librosteria), a Parma (il 23, presso I diari di bordo) e a Rovereto (il 24 alla Libreria Arcadia).
Già nel suo «Paese perduto» (Prehistorica, 2019), il passato non corrisponde al ritrovamento di un’autenticità edulcorata, piuttosto ad un’atmosfera immobile, quasi paralizzata. Vuole spiegarci come è riuscito a raccontare il passato rifuggendo l’idea che esso – perché trasfigurato – sia custode di un tempo felice? Come tenersi lontano dall’illusione di una malinconia che salva tutto e tutti?
Paese perduto evoca una realtà contemporanea alla fine del secolo scorso, in una regione dove le tradizioni e gli antichi modi di vita si sono conservati più a lungo che altrove. Eppure, ho visto arrivare la fine, la fine di una società pastorale e patriarcale molto antica. Il titolo dice tutto: l’angoscia della perdita, come se il minimo intoppo nella sua chiusa perfezione la compromettesse per sempre.
Il paese è infatti perso in se stesso, la sua perfezione non esiste. Il viaggio del divano letto ironizza su questa angoscia e sulle illusioni dell’autenticità: questo mondo che immaginiamo «autentico» è in realtà tessuto da finzioni, e i contadini sono i primi creatori di finzioni. Tutte le storie che racconto sono vere, esatte, ma presentate come finzioni, come se il vero fosse solo un aspetto della finzione. È l’umorismo che ci salva dalle illusioni dell’autenticità.
Nel suo «Il viaggio del divano letto» vi sono protagonisti in carne ed ossa e non solo. Gli oggetti e la loro aurea occupano gli spazi fisici ma anche quelli simbolici e attorno al loro esistere si articola l’intera storia raccontata. Chi si cela dietro gli oggetti e perché sono così presenti?
Non c’è nessuno dietro di loro, ed è questo che è affascinante. Gli oggetti sono l’immagine della realtà stessa, in tutta la sua inaccessibilità, la sua chiusura, la sua radicale estraneità all’umanità. Il problema che i miei personaggi si pongono, in tutti i miei libri, è il seguente: «Che cosa è reale? Come possiamo accedere alla realtà?» Così, anche se in modo umoristico, il libro racconta vari episodi, più o meno gravi, che hanno costellato la mia vita, ognuno legato a un particolare oggetto, cosa che ha il vantaggio letterario di concentrare e condensare in sé tutta un’azione e tutto un simbolico. In questo modo gli oggetti sono sia il significato che il significante.
Il viaggio dalla Valle della Marna, a sud est di Parigi, fino in Alvernia rappresenta l’occasione per il protagonista e il fratello (con la moglie Martine) di vivere un momento di convivenza nomade. Sono rievocati ricordi – spesso urticanti – di vicende familiari eppure non si può non sorridere per il sarcasmo beffardo che caratterizza la voce narrante. Come ci è riuscito?
Come si fa a far ridere? Per esempio attraverso la sproporzione tra una cosa molto piccola e il modo esagerato in cui viene evocata, o il rapporto tra una situazione seria e solenne e dettagli volgari. Questa è l’intera premessa del libro: piccoli oggetti quotidiani trattati come tragici ingranaggi della ruota, i tappi per le orecchie che mi hanno quasi fatto uccidere, per esempio. La scena all’Académie française, in cui descrivo l’intera cerimonia nei termini del mio disperato bisogno di fare pipì, è una sorta di epopea urinaria.
Mi diverto molto anche con il linguaggio, sottolineando le acrobazie sintattiche e lessicali che uso, raffigurando un lettore furioso per ciò che sta leggendo, sostituendo «lui dice» o «dice lei», che possono diventare rapidamente stancanti in una storia con molti dialoghi, con sostantivi che designano le grida degli animali, e così via. Ahimè, in Francia, non appena un libro è umoristico, viene considerato per forza meno serio.
Il presente del viaggio e il passato della giovinezza e delle storture familiari sono narrati grazie a uno speciale flusso di coscienza della voce narrante, che spesso si attarda a cercare conferma nel lettore – rivolgendosi a noi che leggiamo. In questi termini chi sono i suoi autori e le sue autrici di riferimento?
Per quanto riguarda il dialogo tra il lettore, protagonista della storia, e il narratore, il modello assoluto nella letteratura francese è Jacques le fataliste di Diderot. Per lui, come per me, c’è un lato provocatorio nello scambio con il lettore, che dovrebbe incarnare una sorta di bien-pensance, una posizione tradizionale rispetto al modo di raccontare e alla buona creanza. Ma l’altro riferimento è, naturalmente, il Tristram Shandy di Sterne, con i suoi continui rinvii a un interlocutore al fine di sviluppare considerazioni incongrue. E poi ancora, le sue incessanti digressioni.
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