L’appuntamento è da Fifo, bar storico nel sestiere Cannareggio a Venezia, sua città d’adozione. Pierpaolo Capovilla arriva con «il manifesto» e «Avvenire» nella tasca della giacca, il diavolo e l’acquasanta dice lui sorridendo. Immancabilmente vestito di nero saluta tutti quelli che non hanno l’aria di essere turisti. Capovilla, musicista ma anche molto altro, sia nelle canzoni che pubblicamente è da sempre stato un portavoce degli ultimi, la sua arte è connotata politicamente in modo limpido, anche il suo ultimo album con I Cattivi Maestri è intriso di bombe, pace, rivolte, carcere. Temi attualissimi ma che, paradossalmente, troppo spesso vengono poco frequentati dagli artisti.

Cos’è per te il 25 aprile, e cosa resta oggi?

È il Natale laico del Paese, e per come la vedo io, la sua celebrazione è doverosa e necessaria per chiunque creda nella democrazia e si senta cittadino della Repubblica. Ciò che resta di questo Natale, siamo noi tutte e tutti, i credenti.

Quando «il manifesto» organizzò la manifestazione a Milano nel 1994, un mese dopo lo schiacciante trionfo di Berlusconi, la piazza sembrò reagire allo shock elettorale. In verità eravamo all’inizio della fine…

Non c’è dubbio che il trionfo di Berlusconi del ’94 rappresenti l’epifenomeno di un Paese che avrebbe voltato le spalle al suo passato e ai valori della Resistenza, per abbracciare i disvalori del consumismo più sfrenato e dell’arrampicamento sociale. Il processo era in corso da tempo, fin dal secondo dopoguerra e dal boom economico, ma se vogliamo individuare il momento di passaggio da un percorso storico all’altro, direi che il berlusconismo è quello dirimente. Nulla sarebbe più stato come prima.

Nella famosa lettera Giaime Pintor il 28 novembre 1943 scrive al fratello Luigi: «Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte». Hai l’impressione che gli artisti oggi fatichino a uscire dai comodi ripari? È rassegnazione o altro?

Rassegnazione per alcuni, scelta cosciente per altri, adeguamento alle circostanze, o sussunzione capitalistica, direbbe Marx, per la stragrande maggioranza degli artisti. Perché non c’è dubbio che sia venuta meno la lotta di classe, e con essa, che è il cuore pulsante della dialettica democratica, si è fortemente indebolita la coscienza civile nella vita della gente: è stato un processo di rinuncia lento e inesorabile.

Anche dichiararsi pacifisti oggi diventa controproducente per una spirale in cui i musicisti rischiano di essere risucchiati, basta vedere ciò che è capitato a Ghali a Sanremo, su cui per settimane si è puntata l’attenzione invece di discutere di cosa stava succedendo in Medio Oriente.

Nel discorso pubblico sta emergendo il tema dell’economia di guerra e dei suoi vantaggi. Ha ragione Carlo Rovelli, stiamo impazzendo. La più nazional-popolare delle star della musica italiana, Vasco Rossi, ha detto «rifiuto di schierarmi come se fosse una partita di calcio, Israele contro Palestina… Free Palestine è un bello slogan, ma se implica la distruzione dello Stato di Israele, io mi ribello» aggiungendo di non sapere cosa sia il sionismo. Ecco, appunto. Sembra la fotografia della società italiana, che non sa perché non vuole sapere, figuriamoci schierarsi. Non lo vede Vasco che non è Israele ad essere distrutta, ma la Palestina? Neppure di fronte a una strage premeditata riusciamo più ad indignarci. Se non è questa l’indifferenza, all’ennesima potenza.

Negli anni ’90 molte band si spendevano su temi antifascisti. C’erano anche più locali, ambienti più piccoli di condivisione, i concerti costavano meno, c’era più autonomia nell’organizzazione e i mega-eventi non avevano ancora vampirizzato la musica dal vivo. Quale immaginario può offrire la musica a una società disgregata come quella di oggi?

I mega-eventi rappresentano la più autentica manifestazione del capitalismo nell’ambito della musica. È lì che si consuma il triste rito dell’inutile: la musica diventa ciò che il Capitale vuole che sia, semplice merce. Gli «artisti» diventano merce, le loro canzoni, le parole, gli arrangiamenti, e il pubblico, ovviamente. Tutto è reificato, la poesia ridotta a cosa, la speranza a indifferenza. Se osserviamo le classifiche, ci sono i rospi della trap, quelli del turpiloquio che sguazzano nel pantano sintattico di una grammatica mai conosciuta, in cima a tutti. Sono giovanissimi, disagiati, vengono dalle periferie, e invece di reagire all’ingiustizia sociale, come americani qualsiasi in preda all’astinenza, in quell’ingiustizia colgono l’opportunità di arricchirsi di soldi e fama. Poveri schiavi, i tatuaggi resteranno loro impressi sulla pelle per tutta la vita. È il fallimento antropologico-culturale di un paese, e il guaio è che sembra un destino.

Quali sono le scelte politiche che più ti preoccupano?

La gestione del fenomeno migratorio, innanzitutto, con i suoi morti in mare e quei luoghi spaventosi che sono i Cpr. È una vergogna e un disonore, così come lo è la premeditata e cosciente emarginazione dei Romanes, poveri fra i poveri, esclusi fra gli esclusi. E certamente la fascistissima repressione poliziesca del dissenso. Grazie al cielo, i nostri ragazzi, che sono il nostro futuro, non si lasciano intimidire. Che Dio vi benedica, studentesse e studenti, siete il più potente anticorpo democratico, in questa deriva culturale e politica. Pasolini, in Una Luce scrisse «non c’è mai disperazione senza almeno un po’ di speranza». Ecco, voi siete quella speranza, quella luce.

Come trascorrerai il 25 aprile?

Pellegrinerò in quel di Milano. Sarà una giornata meravigliosa.