Nella festa popolare di questi giorni, anche un che di strapaese – ridotti affollati di profumi pungenti o essudati da intime trine; «bigiutterie» traslucide, pendule ai colli delle signore, come rapite di fronte all’arrivo di un treno alla stazione di Ciotat –, due film interessanti al Bifest di Bari: due strani oggetti, manufatti di attorialato tra l’altro, con suggelli musicali e scenografici e inferenze ideologiche di una certa suggestione.

IL PRIMO è Percoco diretto da Pierluigi Ferrandini (dal libro di Marcello Introna, sarà nelle sale dal 17 aprile), storia di quello che viene annunciato come il primo «mostro» italiano: film fatto di suppellettili, di stoffe d’alta sartoria, auto decapottate, cibi brodosi di chissà quale esotica bestia; «articoli di bigiutteria in celluloide» (nell’ingiunzione gaddiana); insomma tutto il ciarpame su cui s’è retta e si regge ancora la borghesia italiana, la propria temperie autoreferenziale, all’insegna dell’ignoranza più cupa e della cupidigia dell’ultra-effimero.

È forse questo il maggior merito del film, insieme a un umorismo nero, come sotteso nelle pieghe del ghigno di Franco – un ottimo Gianluca Vicari, dai tratti pasoliniani, ma traslati ora nel contesto della piccola, pecoreccia borghesia meridionale dei ’50 – e ronzante sul déco fiorato dell’appartamento in via Celentano. Cioè l’attualità del discorso sulla borghesia o su un’umanità ottusa che aspira a diventare, tutta in balia della merce, degli oggetti del capitale, la carne morta di questi oggetti su cui pullulano le mosche, carne morta che richiama, attira altra morte: in questo caso quella inflitta alla famiglia di Franco.

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È una borghesia necrofila, pubblicitaria (la classe al potere), che si rimira nello specchio di una banconota, talmente grande da sembrare uno schermo cinematografico, lo spazio ideale su cui non si può non proiettare un film inerente alla putrefazione, alla cancrena del potere (dell’immagine pubblicitaria, cioè la morte che si guarda allo specchio).

Ma come controcanto Ferrandini mostra una visione di grazia: il corpo lirico, «schelettonico» di Laura Gigante – non nel senso di scheletrico, bensì in quello deamicisiano di qualcosa in cui l’evidenza dello scheletro da sotto la coltre di pelle conferisca armonia e «salute» –, splendente, immagine dell’amore evanescente, che svanisce nel riflesso di uno specchio.

E LA MORTE, ma in una versione metafisica, è anche il centro, anzi l’agnizione del film di Mario Tani, Il grande male, oggetto di derivazione cinefila, «film derivativo» direbbe il critico ponderoso attingendo al bacino retorico a disposizione della critica una e trina, e radendo al suolo ogni possibile discorso sull’immagine cinematografica oltre che ogni residua volontà di vivere di chi scrive.

Fatto sta che Il grande male espone in modo talmente spudorato (ed entusiasta) i suoi modelli – Mullholand Drive e Una pura formalità su tutti – da suscitare l’indulgenza esterrefatta dello spettatore, e poi anche un certo interesse per il meccanismo inchiavardato del film (questa volta la chiave è rossa, non blu) e, ancora, alla fine, qualcosa come uno struggimento.

Poi, rifarsi a Mullholand Drive avendo a disposizione una tale povertà di mezzi, senza naufragare e sfidando l’accusa di lesa maestà (Lynch), è ammirevole. Come lo è l’interpretazione di Roberto Corradino (sorretto da ottimi comprimari tra cui Elena Cotugno), attore di solida formazione teatrale che lui ha provveduto minuziosamente a sformare negli anni, a sgrammaticare in uno strido da Ubu Roi, a ridurre (innalzare) a una specie di deliquio di ossesso o amenza di spettro: è l’ebbrezza del gesto e della dizione, tra parodia e sublime.

Reduce dai suoi monologhi sui palcoscenici di mezz’Europa in cui era posseduto da Bene o Giordano Bruno – e che lo «zi’ prete» ha tentato di esorcizzare in ossequio alla provincia più pecoreccia –, qui assume la mutria del lemure: un pallore e un’inerzia che ispirano l’ansia metafisica, la fede nella gestica, e, alla fine, la fine spaventosa dell’amore.