Per tenere acceso l’altoforno Piombino chiude per sciopero
Crisi industriali In 15mila al corteo. Camusso: "Costa meno investire che la cig". Angeletti: "Intervento statale non è tabù"
Crisi industriali In 15mila al corteo. Camusso: "Costa meno investire che la cig". Angeletti: "Intervento statale non è tabù"
Questa volta Piombino ha chiuso davvero. Non c’era una serranda alzata in città, in piazza Bovio non si riusciva a entrare, e al corteo sono sfilati proprio tutti: pensionati e studenti, commercianti e cassintegrati, impiegati e commesse, i giovani precari e gli anziani che nelle Acciaierie hanno lavorato una vita. Certo, era la prima volta che arrivavano insieme i segretari generali dei tre sindacati confederali. Accorsi al capezzale del secondo polo siderurgico italiano, quando peraltro il malato era finito in coma da un pezzo. Ma le parole più adeguate per la grande manifestazione di oggi sono arrivate dalla pancia del corteo dei 15mila. Dette da uno degli operai che continuano a difendere con le unghie e con i denti il lavoro in fabbrica, unica fonte di sostentamento per migliaia di famiglie della Val di Cornia: “Se chiude l’altoforno se ne vanno via almeno in 800. Con l’indotto si sale a 1.200 e forse più. Per ora a casa raccontiamo le barzellette, perché se dovessimo raccontare la verità…”.
La piazza che guarda il magnifico mare piombinese è strapiena, il cielo è sereno e l’Isola d’Elba quasi si tocca con mano. Anche nel miracoloso paradosso di un centro industriale di 35mila abitanti incastonato in un comprensorio di rara bellezza ambientale, si è consumato il dramma della storica cittadella dell’acciaio. Con gli stabilimenti Lucchini, Magona e Dalmine che a un certo punto erano diventati quasi un fastidio. Almeno agli occhi dei troppi che si illudevano di poter magicamente sostituire la ricchezza delle produzioni industriali a ciclo continuo con quella, stagionale e ben più aleatoria, del turismo.
Un peccato mortale. Commesso in concorso di colpa anche da chi ora si interroga, sul palco, sulle possibilità di una riconversione economica dell’area piombinese. Perché le analisi della Scuola superiore Sant’Anna, diretta fino a pochi mesi fa dal ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza, sono più che allarmanti: senza le risorse che la sola ex Lucchini riversa ogni mese in Val di Cornia, a partire dai tre milioni e mezzo di euro di stipendi, l’intero comprensorio ne risulterebbe ferito a morte.
Per questo, di fronte a una città che ha partecipato ma che ancora deve re-imparare a mobilitarsi, il segretario locale della Fiom Luciano Gabrielli avverte: “La manifestazione è riuscita benissimo, sono rimasti tutti in piazza fino all’ultimo minuto. Ma la sfida parte adesso: abbiamo tempo fino al 30 ottobre per convincere a tenere acceso l’altoforno fino almeno al 2015, tenendo così aperto lo stabilimento”. Convincere il governo, che tiene nelle sue mani le sorti delle Acciaierie con il commissario straordinario Piero Nardi. E che però vuole chiudere per sempre il “ciclo continuo” dell’acciaio, sostituendolo con un piccolo forno elettrico e, in una (troppo) lunga prospettiva temporale, con un impianto Corex di ultima generazione. Capace di abbattere l’inquinamento. Incapace di realizzare quei binari ferroviari che Piombino ha sfornato per decenni, e di cui il paese avrebbe un gran bisogno.
“Al ministro per lo sviluppo economico – denuncia dal palco Susanna Camusso – dico che non si può aprire un tavolo e dire che la situazione è grave, e poi far calare il silenzio. Non si fa così politica industriale. Le risorse necessarie per non fermare l’altoforno sono meno di quello che si spenderebbe per gli ammortizzatori sociali”. In fondo a piazza Bovio spicca lo striscione di Rifondazione comunista: “Unica soluzione, nazionalizzazione”. E se Raffaele Bonanni lo gela (“non credo ci siano le risorse, e neppure la volontà, di far tornare Ilva o Lucchini in mano pubblica”), c’è Luigi Angeletti che alla fine sbotta: “Occorre ripensare un tabù, quello per cui lo Stato non deve intervenire per sostenere i settori strategici. Al governo bisognerà fare la domanda fondamentale: se non ci sono aziende private in grado di tenere aperto l’altoforno, che cosa facciamo?”. Domanda cui fa eco quella di Enrico Rossi: “Al paese servono ogni anno 150 milioni di tonnellate d’acciaio. Vogliamo che siano tutte importate, o le vogliamo produrre noi? Su questo aspettiamo una risposta politica. Visto che l’acciaio è un misuratore dell’economia, da questo misureremo le risposte del governo”.
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