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Per me, Parlato era Valentino

Per me, Parlato era ValentinoVittorio Foa, Valentino Parlato e Lucio Magri

L’ho conosciuto nei corridoi di Botteghe oscure. Allora, era dopo la metà degli anni ‘60 del secolo scorso, non ne ero ancora uno stabile inquilino, ma un ospite di passaggio. […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 3 maggio 2017

L’ho conosciuto nei corridoi di Botteghe oscure. Allora, era dopo la metà degli anni ‘60 del secolo scorso, non ne ero ancora uno stabile inquilino, ma un ospite di passaggio. Dirigevo il Pci in Lombardia, e con me lavorava Lucio Magri. Parlato stava alla sezione economica con Giorgio Amendola. Entrambi erano stati con Ingrao al congresso successivo alla morte di Togliatti, come Rossanda, Pintor, Natoli e molti altri che molto stimavo e che poi fonderanno, ma senza Ingrao, il manifesto.

Valentino non la pensava come Amendola e il suo successore, Eugenio Peggio, dirigente comunista ed economista di valore poi prematuramente scomparso. Anzi, come si sa, le sue scelte politiche furono opposte. Ma non smise mai di ricordare con affetto e con stima politica Amendola, difendendolo contro i detrattori.

C’era, in Valentino, il gusto della contraddizione, il fastidio per l’accondiscendenza facile al pensiero corrente e dominante, fosse quello egemone nel Pci, o quello divenuto preponderante nelle sinistre antagoniste. Non fummo sempre dello stesso parere. Al momento della scomparsa di Togliatti pensai che Longo fosse il segretario più a sinistra possibile e ritenni poi che, con uno statuto che vietava le frazioni, renderne esplicita una avrebbe indebolito la tendenza che essa volesse rappresentare. Ma mi pareva di intendere, pur nelle differenze immediatamente politiche negli anni della separazione, il significato e il valore di una posizione che cercava vie nuove per una sinistra che mostrava segnali forti di anchilosi.

Forse perciò toccò a me di trattare con Magri il rientro del Pdup nel Pci. Con Valentino ci ritrovammo, soprattutto, al momento della metamorfosi del Pci in altro da sé. E non smisi di ammirarne la capacità, il coraggio politico (e l’ironia) quando, nelle riunioni di coloro che si opponevano a quella mutazione ricordava lo stato di fatto delle cose economiche e esortava a sfuggire le semplificazioni eccessive, come fece in un intervento, per me memorabile, in una assemblea – il luogo era Arco di Trento – decisiva per le sorti della sinistra.

Era lo stesso Valentino Parlato che dalle colonne del manifesto polemizzava con chi sosteneva (c’ero anch’io tra questi) il comunismo come un orizzonte (che, ovviamente, non si tocca mai) in nome dell’attualità dell’idea comunista. Non c’era, in questo, contraddizione in lui ma il bisogno di contraddire chi da un lato immaginava facile costruire una sinistra nuova, e chi poteva sembrargli troppo incline a rinunciare a un patrimonio ideale.

So bene quanto di rilevante ha fatto Parlato con la sua opera di giornalista e di studioso dell’economia per la sinistra che c’è stata e per quella che verrà. E so che la sua fedeltà ai comuni ideali si univa ad una volontà rinnovatrice radicale.

So che Valentino Parlato sarà ricordato come figura eminente della storia della sinistra italiana. Ma per me c’è qualcosa di più. Tra i vecchi comunisti ci si chiamava per cognome. Non credo di aver chiamato per nome neppure i compagni che mi furono più vicini. Ma Parlato per me è stato sempre, come ho scritto qui, il suo nome, il nome di un compagno amico: per la sua dolcezza, per la sua arguzia, per la sua risoluta timidezza.

Grazie, caro Valentino.

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