Pensioni, in Italia l’età più alta e poco fisco ma un sistema equo è sostenibile
Poco Previdenti La vera priorità è affrontare le differenze nell’aspettativa di vita: ci sono divari fino a 3-5 anni a scapito dei gruppi svantaggiati sul piano socioeconomico
Poco Previdenti La vera priorità è affrontare le differenze nell’aspettativa di vita: ci sono divari fino a 3-5 anni a scapito dei gruppi svantaggiati sul piano socioeconomico
Riaccesi i motori della macchina previdenziale durante l’estate, governo e partiti si affannano nel tentativo di quadrare il cerchio tra le promesse elettorali del 2022 e i nuovi vincoli di bilancio. Due aspetti colpiscono, in particolare, del dibattito attuale. Primo, in linea con l’ultimo decennio, le proposte di riforma prevedono solo interventi al margine: volti a cercare un difficile equilibrio tra “fare cassa” e la cattura del sostegno dei gruppi sociali rilevanti per i partiti di governo, essi tradiscono ancora una volta l’assenza di una visione organica delle criticità – così come dei punti di forza – delle pensioni italiane. Infatti, è il secondo aspetto, il dibattito appare ancora centrato su diagnosi e terapie elaborate negli anni ’90, prima della radicale ridefinizione dell’architettura previdenziale con le riforme Amato, Dini e Monti-Fornero, e della parallela profonda flessibilizzazione e trasformazione del mercato del lavoro italiano che hanno generato condizioni e problemi del tutto nuovi, raramente messi sotto la lente da esperti e decisori politici.
Secondo diversi recenti contributi di stampa, sullo sfondo del generale processo di invecchiamento demografico che mette a repentaglio il patto intergenerazionale su cui si fondano i sistemi pensionistici a ripartizione, le principali criticità da affrontare sarebbero infatti il carattere “assistenzialistico” del sistema pensionistico italiano e il limitato versamento contributivo da parte dei lavoratori, frutto di requisiti contributivi e anagrafici per il pensionamento troppo “morbidi”. In linea con la diagnosi, la nuova terapia prevede due ingredienti principali: riduzione della quota di spesa pensionistica assistenziale perché in continuo aumento e non sostenuta da versamenti contributivi/fiscali da parte dei beneficiari; innalzamento dell’età pensionabile (giocando su flessibilità, vincoli e penalizzazioni) ed estensione del periodo contributivo minimo per le pensioni di vecchiaia al fine di contrastare il fatto che la maggior parte dei pensionati di vecchiaia a 67 anni non soddisfa il requisito contributivo di 20 anni se non considerando circa 5 anni di “contributi figurativi” (contributi versati a copertura di periodi di maternità, malattia, disoccupazione).
Evidentemente, diagnosi e dati giocano un ruolo decisivo nel delineare i problemi (“framing”) e individuare le azioni necessarie per risolverli. Ma davvero l’assistenzialismo costituisce il grande vizio del sistema pensionistico italiano e, nonostante tutte le riforme restrittive, andiamo ancora in pensione troppo presto? I dati raccontano una storia diversa.
In primis, il carattere “assistenzialistico” del sistema pensionistico non trova riscontro nei dati comparati. La componente assistenziale è infatti più ridotta in Italia rispetto agli altri paesi europei, con una spesa per pensioni di vecchiaia means-tested (assistenziali appunto) che si ferma allo 0,4 del PIL, contro una media UE dello 0,5% – ben inferiore a Spagna (1,1%), Danimarca (6,1%) Olanda (1,1%) e Portogallo (0,6%).
Il secondo mito da sfatare è che andiamo in pensione troppo presto. E’ vero che le pressioni demografiche rappresentano sfide potenti per i sistemi a ripartizione, ma il quadro è radicalmente mutato rispetto a trent’anni fa quando l’Italia era il “paese delle baby pensioni”. Se infatti l’aspettativa di vita a 65 anni (rilevante per gli equilibri previdenziali) è aumentata di 2,8 anni dal 1994, e di soli 1,1 dal 2004, dal 1994 l’età pensionabile è però aumentata di 12 anni per le donne e di 7 per gli uomini. Inoltre, l’irrigidimento di canali di accesso al pensionamento indotto dalle riforme Sacconi e Monti-Fornero – attuato con una rapidità che non ha pari nei paesi UE – ha portato l’Italia ad avere non solo l’età pensionabile più elevata ma anche l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro tra le più elevate nell’UE: 64,2 anni nel 2023, contro una media UE di 63,6 anni (il rapporto era invertito dieci anni prima: 62,3 anni in Italia contro i 63,1 nell’UE) poco sotto la Svezia (65 anni), in linea con la Germania e sopra a Spagna (64), Finlandia (63,7), Austria (63) e Francia (62,4) (dati: Commissione Europea Ageing Report).
Possiamo quindi immaginare di aumentare ulteriormente l’età pensionabile? Per rispondere è decisivo analizzare altri dati che consentono tanto di valutare l’equità del sistema in ottica intra-generazionale quanto di coglierne le interazioni con il mercato del lavoro.
La prima considerazione è che le differenze nell’aspettativa di vita a 65 anni vita (così come nell’incremento della stessa) sono significative e raggiungono i 3-5 anni a scapito dei gruppi svantaggiati sul piano socioeconomico. Inoltre, vi è uno scarto significativo tra aspettativa di vita e anni attesi in buona salute a 65: questi ultimi sono infatti circa la metà (10,1) rispetto ai primi (20,6). Infine, mentre l’aspettativa di vita è in graduale aumento, ciò non sembra essere vero per gli anni attesi in buona salute. Per molti lavoratori – specie i più svantaggiati – è dunque molto difficile e oneroso continuare a lavorare oltre i 65 anni.
La seconda considerazione riguarda l’interazione tra le più elevate età di pensionamento e il mercato del lavoro. Il tasso di occupazione nella fascia 65-69 anni è di fatto in linea con la media europea (14,7% vs 15,2%), mentre nella fascia 55-64 è raddoppiato dal 2000 raggiungendo il 57,3%. Parallelamente si è però drammaticamente ampliato il divario nei tassi di occupazione dei lavoratori adulti (25-49 anni) tra l’Italia e l’UE: dai 5 punti percentuali del 2003, fino ai quasi 10 punti nel 2022 (72,1% vs 81,9%). L’Italia è perciò oggi tra i paesi europei con la più bassa quota di giovani e la più alta quota di anziani sul totale dell’occupazione: vi è da chiedersi se è con questa struttura occupazionale che vogliamo affrontare le due transizioni verde e digitale – che richiedono competenze elevate e “fresche” – o se la strategia del continuo innalzamento dell’accesso al pensionamento non abbia importanti esternalità negative su mercato del lavoro ed efficienza economica.
Ridisegnare efficacemente le regole pensionistiche oggi richiede sia di superare le analisi che hanno plasmato le “grandi riforme” degli anni ’90, sia di delineare una proposta organica di intervento su basi profondamente differenti che – superando il susseguirsi di micro-provvedimenti distributivi e traendo spunti dalle migliori esperienze europee – consentano di combinare efficacemente sostenibilità economico-finanziaria, adeguatezza ed equità, quest’ultima intesa non soltanto in chiave inter-generazionale ma anche (e soprattutto) intra-generazionale.
* Professore ordinario di Scienza Politica, Università degli Studi di Milano
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