Passeggiate interstellari
Mappe celesti /3 La Via Lattea e le sue leggende. Una galassia nata dal latte fuoriuscito dal seno della dea Era, per i greci e della Madonna, per i cristiani. Il liquido si sparse nel cielo e fu così che le anime poterono dissetarsi lungo il tragitto
Mappe celesti /3 La Via Lattea e le sue leggende. Una galassia nata dal latte fuoriuscito dal seno della dea Era, per i greci e della Madonna, per i cristiani. Il liquido si sparse nel cielo e fu così che le anime poterono dissetarsi lungo il tragitto
In tutte le culture umane ritroviamo dettagliate descrizioni di viaggi compiuti in sogno, in estasi o dopo la morte. Esplorazioni di mondi misteriosi la cui durata è ignota e il ritorno incerto. In questa geografia dell’altrove la stessa idea di viaggio è stata plasmata nei millenni per rendere familiare ciò che per definizione è oscuro e inconoscibile. Così come nella sua vita reale l’uomo costruisce strade, ponti, palazzi, così fa per l’altro mondo, nei viaggi dell’anima fuori dal corpo, creando una sorta di topografia dell’aldilà che ha il doppio scopo di delimitare e ridefinire l’ignoto e rassicurare l’esistenza di coloro che sopravvivono.
Bruce Chatwin nel suo Le vie dei canti ha mostrato come anche per gli aborigeni australiani il territorio non fosse solo un luogo geografico ma un insieme di storie, di canti, di ricordi: nel loro ciclico walkabout per i monotoni deserti percorrevano i luoghi impregnandoli di miti e di significato, compiendo una sorta di deambulazione insieme musicale, religiosa e geografica.
Guardando il cielo notturno, tutti noi veniamo presi da un ineffabile senso di smarrimento molto più potente di quello provato di fronte a una pianura, un mare o un deserto, per quanto sconfinati essi siano. Le costellazioni, sorta di mitici «unisci i puntini» enigmistici, bastano appena a narrare qualche rassicurante storia dalle lontane origini greche. Ma l’intera nostra galassia è un gigantesco walkabout narrativo ancora oggi vivente nelle culture umane, soprattutto italiane.
Quel meraviglioso tappeto di luce che vediamo sopra le nostre teste di notte è un gigantesco disco stellare dal diametro di centomila, centocinquantamila anni luce, illuminato da miliardi di stelle: duecento, forse quattrocento. Immaginando un modellino in scala della Via Lattea, di diametro di centotrenta chilometri, il nostro sistema solare occuperebbe appena due millimetri.
La porta dei due mondi
La Via Lattea non è solo bella da vedere, ma anche buona da pensare. Per la scienza, così come anche per Christopher Nolan nel suo ultimo film, Interstellar, può anche essere un enorme wormhole, un Ponte di Einstein-Rosen in grado di trasportare da un punto all’altro dell’Universo con una velocità superiore a quella della luce. È su questa teoria, infatti, che si basa il viaggio degli astronauti protagonisti del film, alla disperata ricerca di una nuova casa per l’umanità.
Che la Via Lattea sia un ponte non l’ha ipotizzato né Einstein né il fisico teorico Kip Thorne (consulente e produttore di Interstellar), ma lo narravano secoli prima tante culture umane, dotte e popolari, che l’immaginavano come una strada, una porta o un ponte che il defunto avrebbe dovuto attraversare per giungere alla sua dimora eterna. Ne parlava Macrobio nel V secolo nel suo Commentarius in Somnium Scipionis, là dove descriveva la Via Lattea come una strada che «tagliava» i due tropici, del Capricorno e del Cancro: «i fisici li chiamarono porte del sole… Attraverso queste porte si crede che le anime passino dal cielo sulla terra e risalgano dalla terra al cielo». Mille anni prima anche la religione zoroastriana conobbe un ponte «del discernimento» il Cinvat peretu, sul quale passavano le anime dei defunti: quelle dei giusti più facilmente, visto che il ponte si allargava al loro incedere.
Le diverse tradizioni «galattiche» sembravano concordare su di una cosa: le anime, insieme agli dei, vivono in uno spazio siderale fatto di latte, alimento primario per entrambi. Ecco perché gli uomini lo cercano appena nati: perché le loro anime, prima di incarnarsi nei corpi, si nutrivano di questa bianca sostanza «galactica». Ne è certo Pitagora, che «chiama Ade la Via Lattea ed il luogo delle anime» e sostiene che «presso alcuni popoli il latte era offerto come libagione agli dèi purificatori delle anime, e il latte è il primo nutrimento di coloro che cadendo vengono generati».
Pellegrinaggio di san Giacomo
La stessa galassia nacque dal latte fuoriuscito dal seno di Hera. Soltanto chi avesse bevuto dal suo seno, infatti, avrebbe ottenuto l’immortalità, pur non avendo origini completamente divine. Così Zeus riuscì con l’inganno a far bere al seno della dea il figlio Herakles ma, quando questa se ne accorse, allontanò con violenza il piccolo (o in altre versioni l’eroe oramai adulto) e il suo latte si sparse per tutto il cielo formando la Via Lattea.
Era inevitabile che questo nucleo mitico si iscrivesse nel leggendario cristiano e in particolare nel ciclo nato intorno a Maria: una leggenda abruzzese racconta che un giorno il piccolo Gesù andò al tempio a disputare con i dottori, mentre la Madonna lo cercava per ogni dove, versando il latte del suo seno lungo il tragitto. Da questa bianca striscia di latte ebbe origine la galassia.
Sempre in Abruzzo, ma in realtà con un areale di portata europea, il nostro ammasso stellare è anche conosciuto come «la strade de san Giacume de Halizie», con riferimento a san Giacomo, fratello maggiore di Giovanni e figlio di Zebedeo e Salomé. Festeggiato il 25 luglio, giorno della traslazione delle sue ossa da Gerusalemme in Galizia, nel medioevo fu considerato patrono dei pellegrini e per questo raffigurato con un lungo bastone e un largo cappello, per difendersi dalla pioggia. Altro fondamentale attributo iconografico è la conchiglia, simbolo di coloro che si recavano in pellegrinaggio al suo santuario di Compostela.
Il legame tra il santo e la bianca via celeste è antico, se già ne parla Dante nel Convivio: «quello bianco cerchio che lo vulgo chiama la via di Sa’ Iacopo»; e il contemporaneo Giordano da Pisa in una delle sue prediche: «Quelle stelle che volgarmente i laici chiamano la via di San Iacopo». Il pellegrinaggio al santuario in Galizia, a nord-ovest della Spagna, era uno dei più noti e affollati nell’Europa medievale, così come lo è ancor oggi.
La sua leggenda comincia a diffondersi a tappeto soprattutto nel XII secolo, quando apparve il Liber S. Jacobi, un’imponente opera di propaganda contenente inni, panegirici, sermoni e miracoli del santo, oltre una vera e propria Guida per il pellegrino e la Cronaca di Turpino (un monaco dell’VIII secolo), piena di elementi tipici delle chansons de geste.
Qui si racconta di un famoso sogno di Carlo Magno: san Giacomo gli appare incitandolo a liberare dai musulmani la sua tomba in Galizia e gli indica la direzione da seguire: un cammino di stelle. Fu in quel periodo che la piccola cittadina cambiò il nome da Iria a Campus stellae, Compostela. Toccò a Carlo ristabilire la via interrotta tra Oriente e Occidente, unificare il mondo cristiano ma anche il mondo dei vivi e quello dei morti. Un programma impegnativo che vedrà protagonisti tutti i paladini della Chanson de Roland, il poema nazionale francese. Lo stesso Turpino divenne l’archetipo del monaco combattente, caduto a Roncisvalle accanto al paladino Orlando.
Viaggi ultramondani
Dal Medioevo la fama del pellegrinaggio e di san Giacomo, la sua protezione sui viaggi, terreni e non, si sono diffuse dappertutto nonostante, racconta una leggenda, un giorno il santo si lamentasse col Signore che il suo santuario in Galizia fosse poco conosciuto. Dio allora gli rispose di non preoccuparsene: “chi non ti visiterà da vivo, ti visiterà morto”. Da allora, da una piccola porta che è nel santuario si sente battere continuamente: sono i morti che vi entrano ed escono.
Ogni anima cristiana, dopo la morte deve, se non andare a Compostela almeno attraversare il «Ponte di san Giacomo», quello di cui parlavamo poc’anzi conosciuto anche come Ponte del capello: un ponte ultramondano che si allarga o si restringe a seconda delle azioni buone o cattive del defunto, fino a diventare sottile come un rasoio o un capello. I bambini percorrerebbero tutta un’altra strada, più facile, luminosa e allegra: l’arcobaleno.
Un esemplare stupendo di questo ponte è visibile a Loreto Aprutino (Pescara), negli affreschi della chiesa di Santa Maria del Piano. Nella grandiosa raffigurazione del Giudizio delle anime, risalente al Quattrocento, nella parte inferiore sinistra si vedono anime nude che attraversano il «Ponte del capello».
In alcune tradizioni popolari italiane, questo attraversamento avverrebbe a mezzanotte, segnalato da uno scricchiolìo avvertito nella camera del defunto. In quel momento tutto tace e il silenzio piomba tra amici e familiari riuniti per «vegliarlo». Nessuno deve parlare o anche piangere, perché le lacrime bagnerebbero le vesti del morto e renderebbero meno agevole il suo muoversi. Il passaggio sul ponte è un momento di portata cosmica che deciderà il futuro eterno del defunto; è un momento anche faticoso e doloroso, come dimostrano l’ultimo sudore o l’ultima lacrima del cadavere: sono il risultato dello sforzo e delle ferite prodotte dal taglio dei rasoi dello strettissimo ponte.
Attraversatolo, o attraversata la Via Lattea, l’anima riposerà in pace, ma potrà ancora, eccezionalmente, ritornare dagli spazi siderali per rassicurare i propri cari o, al limite per aiutarli ancora, magari suggerendo qualche numero da giocare al lotto.
3 – continua (le precedenti puntate di Mappe Celesti sono uscite il 4 agosto, “Una nostalgia siderale” di Bruno Accarino e il 5 agosto, “L’universo in una scia” di Fabrizio Capaccioni)
SCHEDA 1 – La Via della Paglia
Se l’origine del nome Via Lattea appare evidente, resta un po’ misterioso un altro termine col quale è conosciuta la galassia in un’area compresa tra il deserto del Gobi fino alle coste africane dell’Atlantico e dal nord del Caucaso al Danubio e fino all’Etiopia: La Via della Paglia. Termine che ritroviamo anche in alcune leggende italiane, dove san Giacomo attraversando il cielo verso Compostela perdeva della paglia sul cammino. Alcuni studiosi hanno voluto vedere l’origine di questa «strada» nella enorme diffusione della cultura musulmana, che portava sempre con sé la paglia per i cavalli. Potrebbe essere una spiegazione, se non fosse che questa «strada» la ritroviamo anche nel leggendario armeno precristiano legato al dio del fuoco e della guerra Vahagn, che un freddo giorno d’inverno rubò della paglia al re assiro Barsham, perdendone nel trasporto celeste e dando così vita alla «Strada del ladro di paglia».
A rendere ancor più «misteriosa» questa celeste Via vegetale è il fatto che in alcune zone d’Europa, come forma di derisione per la rottura di un fidanzamento o per un’unione non ben vista dalla pubblica opinione, si spargeva della paglia (ma anche crusca, segatura, strame, gesso e talvolta letame) tra le porte delle case dei due «ex», creando così una «Via di paglia» molto terrena. Che fosse un augurio di morte fatto cinicamente ai due ex promessi sposi, oppure un invito a prendere una strada di ravvedimento, quasi un pellegrinaggio, che avrebbe cambiato i loro destini? Oppure un’allusione alla immorale segretezza della loro unione, che doveva avvenire di notte e in silenzio? Ricordiamo che, in un mondo abitato da carretti e carrozze, si spargeva la paglia sulle strade quando non si voleva provocare rumore. Come avveniva nella Milano dell’Ottocento in un racconto di Giuseppe Rovani: «…un lungo strato di paglia copriva quasi tutto il selciato della via… (…) Le carrozze, i carri, le carrette cessavano di far rumore appena impigliavano le ruote in quello strame. La qual cosa, tanto allora come adesso, voleva dire che giaceva là presso gravemente ammalato un beneficiato della fortuna» (Cento anni).
SCHEDA 2 – Il Ponte del capello
Il «Ponte del capello» lo si incontra anche nella letteratura riguardante i viaggi nell’aldilà, sotto forma di visioni o racconti. Se ne parla perfino nei «Fioretti» di san Francesco, nella visione di uno dei tre ladroni convertiti, che dovrà attraversare un orrendo fiume pieno degli animali più ributtanti che il medioevo conosceva: scorpioni, serpenti, draghi. Il ladrone riuscirà a superare questo stretto ponte scivoloso, privo di parapetto, grazie a delle ali. Ma il topos del ponte travalicherà la letteratura religiosa e lo ritroveremo anche nell’avventuroso ciclo legato a Lancillotto e agli altri eroi del ciclo arturiano. Anche in queste favolose gesta i protagonisti si trovavano costretti ad attraversare un ponte stretto e affilato per giungere a dei regni che, anche se non dichiaratamente infernali, gli somigliano tanto. Così Galvano si trova ad attraversare un ponte «assai più pericoloso, / e non è stato passato da alcun uomo / perché è come una spada affilata / e per questo le genti / lo chiamano il ponte della spada». Eppure, strano a dirsi, tra le opere di letteratura italiana che descrivono topografie dell’aldilà, Dante compreso, questo ponte non lo si incontra. Lo troviamo in un’opera di poco posteriore alla Divina Commedia, «Il Quadriregio» di Federico Frizzi: «Dalla ripa alla porta era per ponte / Attraversato e steso un sottil filo / Pel qual chi in Dite va, convien che monte / Su pel fil più sottile che bambace / Io passai Flegetonte, e sua mal’onda, Ch’ardea di sotto più che mai fornace». Lo ritroveremo anche nel capolavoro di Giambattista Basile, «Lo cunto de li cunti» (1634), quando Parmetella, la protagonista del quarto passatempo della quinta giornata incontra una fata che la metterà in guardia: “O figlia mia, come mi piange il cuore per le tue disgrazie! Tu vai al massacro, perché questo tuo corpo disgraziato passerà per il Ponte del capello! Perciò, per evitare il pericolo che ti tocca…» c. co.
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