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Parole, silenzi e accuse, su Israele-Palestina è scontro nel cinema Usa

Parole, silenzi e accuse, su Israele-Palestina è scontro nel cinema UsaSusan Sarandon e Sean Penn in «Dead Man Walking» (1995)

Cinema Susan Sarandon scaricata dalla United Talent Agency, Melissa Barrera perde il ruolo in «Scream 7», i casi si moltiplicano e il clima censorio si diffonde

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 23 novembre 2023

Susan Sarandon scaricata dall’agenzia che la rappresentava, la Uta, per commenti giudicati antisemiti. La notizia, di ieri, ha viaggiato più velocemente, e in un raggio molto più esteso, di altre non troppo dissimili per via della fama mondiale dell’attrice newyorkese (Bull Durham, Thelma & Louise, Dead Man Walking…), non solo artisticamente parlando ma anche in quanto attivista. Il fatto che, negli anni, Sarandon abbia messo la sua visibilità a servizio di una vasta gamma di cause che le stanno a cuore – aborto, Black Lives Matter, Bernie Sanders e il ping-pong, per citare alcune delle più recenti – ne fanno un bersaglio favorito dell’opinionismo della destra più militante.

È STATO INFATTI il murdochiano «New York Post» a lanciare la prima pietra, postando un video realizzato durante una manifestazione pro-Palestina tenutasi in città, in cui l’attrice affermava: «Oggi sono in molti ad avere paura, paura di essere ebrei. Stanno assaggiando cosa significa essere musulmani in questo paese, ed essere spesso soggetti a violenza». Durante lo stesso rally Sarandon aveva anche dichiarato: «È orribile quando parlare contro Israele viene associato all’ antisemitismo. Sono contro l’antisemitismo come sono contro l’islamofobia». Ma nulla ha potuto quest’osservazione del tutto condivisibile contro il tono giudicato «minaccioso» dell’altra. E, dopo l’ennesima tempesta di indignazione su X (ex Twitter), la Uta ha confermato che Sarandon non è più tra i clienti dell’agenzia. Nel giro di poche ore si è appreso che l’attrice messicana Melissa Barrera ha perso il suo ruolo nel prossimo film della serie Scream grazie a una serie di social media post che – in riferimento alle stragi di Gaza – evocavano paragoni con l’Olocausto e il genocidio degli ebrei. Pochi giorni dopo l’attentato terroristico del 7 ottobre, anche la potente agente della Creative Artists Agency Maha Dakhil aveva rischiato grosso per aver condiviso su Instagram un post che equiparava il genocidio ebraico all’attacco dell’esercito di Netanyahu sulla popolazione civile palestinese. Dakhil si è salvata per il rotto della cuffia, dimettendosi da un direttivo e offrendo le sue scuse. Ma lo sceneggiatore Aaron Sorkin, che lei rappresentava, ha abbandonato l’agenzia in segno di protesta. Prodotti dell’orribile intransigenza culturale (di destra e di sinistra) che caratterizza il nostro tempo, queste cancellazioni sommarie, sono in realtà casi relativamente isolati quando si parla della guerra tra Israele e Hamas e del disastro umanitario di Gaza. Infatti, meglio di «si parla» forse sarebbe dire «non si parla». Perché – dopo alcune prese di posizione «a caldo», in ottobre – a Hollywood e, dall’altra parte del paese, in importanti istituzioni della East Coast, è caduto un quasi-silenzio dietro a cui si nascondono le fratture che oggi dividono un universo artistico/culturale altrimenti associato a diverse sfumature di liberal.

La guerra e New York è un lungo servizio di copertina che l’ultimo numero del settimanale «New York» (quello della festa del Ringraziamento!) dedica alla realtà divisa tra cui si dibatte attualmente la città. Nelle sezioni relative alla cultura: artisti e collezionisti in rotta di collisione, la redazione della rivista «Art forum» in rivolta e boicottata dai lettori dopo il licenziamento del direttore (aveva firmato una lettera a favore del cessate il fuoco); l’intero programma di conferenze letterarie della 92NY in caduta libera dopo che l’organizzazione ha disinvitato il premio Pulitzer Viet Thanh Nguyen (anche lui firmatario di una lettera collettiva).

NEL SERVIZIO, l’industria del cinema è rappresentata da due fonti anonime – «un attore di origine mediorientale» e «uno showrunner ebreo». Entrambi raccontano di astenersi quasi completamente dal commentare online sulla guerra per timore di reazioni di odio di massa, o di perdere il lavoro; ma anche di parlarne in pubblico. E descrivono un clima generale di paura e sospetto. Come molte delle istituzioni culturali di New York ricevono gran parte dei loro finanziamenti da organizzazioni filantropiche di matrice ebraica, l’industria del cinema americano ha una storia indissolubilmente legata da quella di intellettuali e industriali ebrei scappati dal nazismo. Si tratta, in entrambi i casi, di comunità progressiste, spesso apertamente in dissenso nei confronti del governo Netanyahu, che però sul post 7 ottobre esitano – citando il crescente numero di episodi di antisemitismo riportati nelle news e, non in ultimo, la retorica progressivamente pseudo-hitleriana di Trump. Come se tutto ad un tratto la chiara linea di demarcazione tra l’essere contro Israele ed essere un antisemita di cui parlava Sarandon sia diventata più difficile da definire di quello che sembra.

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