Parole rivoltose e spazi di sofferenza in tredici ritratti
Hieronymus Bosch, «Nave dei folli» (1494 circa)
Cultura

Parole rivoltose e spazi di sofferenza in tredici ritratti

Scaffale A proposito di «Essendo il dentro un fuori infinito», per Caffèorchidea l’ultima silloge di Mariasole Ariot. Il tema è la realtà psichiatrica cui l’autrice ha già dedicato altre intense pagine
Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 marzo 2023

C’è sempre un certo rischio di paternalismo nelle opere letterarie che mirano a «dare voce a chi non ce l’ha», segnate come sono da una disparità di mezzi tra il soggetto e il suo megafono. Oppure sono inficiate dalla presunzione di essere nel giusto, il che poi troppo spesso corrisponde a risultati esteticamente discutibili. Dove invece la voce è tutt’altro che sicura di essere nel giusto, intenta piuttosto a saggiare la mera possibilità di esistere, e si dispone ad accogliere l’altro nel proprio timbro, nella sua grana e nella stessa significazione, lì si colloca un volume da poco stampato da Caffèorchidea, Essendo il dentro un fuori infinito (pp. 127, euro 15) di Mariasole Ariot. La realtà è quella psichiatrica, la stessa cui l’autrice aveva già dedicato alcune pagine della sua plaquette d’esordio Simmetrie degli spazi vuoti (2013), lì definendola «contenzione mascherata da accudimento».

TRA QUEL PRIMO LIBRO e oggi, Ariot ha manifestato una poetica originale con Anatomie della luce, uscito nel 2017 nella collana «i domani» di Aragno, e il più breve Elegia, premio Lorenzo Montano 2021 nella sezione inediti. Calza ad entrambi ciò che Giorgio Bonacini scrive nella postfazione a quest’ultimo, per cui «le parole che leggiamo (…) aprono una voragine in cui il buio sembra essere l’unica presenza luminescente». Vi si assiste al dipanarsi di un ductus implacabile, in cui la parola che dice il dolore è al tempo stesso fortificazione, fortezza contro gli assedi del reale, linguaggio-pelle: come se esistere e resistere fossero una cosa sola.

D’altra parte varrebbe ugualmente il motto programmatico di Artaud in apertura a Il teatro e il suo doppio, «spezzare il linguaggio per toccare la vita», giacché si ha a che fare, anche in quest’ultimo lavoro di Ariot, con quella che Mario Galzigna (al quale il libro è dedicato) avrebbe forse chiamato eccedenza di senso o una parola in rivolta.

SI VEDA L’INCIPIT nel primo capitolo su Fiorenza, che scrive lettere a un padre inesistente: «Lei cura la febbre da venti giorni, è morta da sette, spreme le limacce coi canini, le cola sul mento una bava./ Lei non è mai nata, lei ha l’azzurro negli occhi, lei mangia le sigarette che non fuma. Era la coricata delle fiale e delle provette».
Tra le mura di un reparto lo spazio è reclusivo, il tempo ha la misura delle ere geologiche o dei salti quantici e la materia risponde a un delirio quasi mai definito tale, cui invece è accordato lo statuto del vero: il solo modo per accoglierlo e coglierne la necessità. Di più, in questa galleria di persone dall’identità franta – ma ognuno chiamato più volte con il proprio nome, questo attestato minimo di esistenza e filiazione – gusci sul dorso, nidi in testa, buchi nel petto e bave di molluschi sono concrezioni di una sofferenza che non ha altra via per dirsi, dove le parole violano il dominio delle cose e il simbolico del linguaggio lotta per riappropriarsi di un reale altrimenti incontrollato.

ECCO ALLORA KYLIE, giunta dalla Nigeria direttamente nella contenzione, che «nella solitudine vede due soli spaccarle l’utero, entrarle dentro per innestare il macchinario», o Emma che «ha un tappeto di chiodi dietro la schiena» o ancora Amel che «ha chiuso i pori per proteggersi dall’osceno». Accompagnano i tredici ritratti, creando accostamenti imprevedibili, citazioni in esergo e disegni a matita, ora realistici ora più surreali, corredati da scritte in bilico tra candore e rivelazione.

Se il corpo è il centro dell’esperire, quello dell’esserci sono le relazioni: capitolo dopo capitolo, benché la malattia di ognuno si rideclini in forme del «cadere» e del «vuoto», i nuclei umani e bambini sono preservati nel protendersi verso l’altro, fantasmatico o reale, madre o «tu» contingente. Si crea così, via via più solidale, il «noi» in cui la voce narrante si annovera come per sorte – «Mi chiedi di non ascoltare… Ma ho un pozzo dell’esofago che si prende cura dell’incurabile: ho un posto scuro che non può non dire» –, pur muovendosi sempre sul confine fra il dentro psichico e clinico e un esterno precluso, che è anche quello della stessa salute mentale. Eppure, in questo attraversamento che raggiunge picchi di «una disperazione annichilente, ma senza rassegnazione», come scrive Helena Janeczek in una postfazione di inappuntabile profondità, ad avere l’ultima parola non è la pena dei reclusi, ma la possibilità di una fratellanza, di un lascito condiviso che guarda a un futuro possibile del noi: nel fuori infinito, con pieno diritto di esistenza.

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