Arriverà oggi a Roma, all’aeroporto di Ciampino, la salma del giovane avvocato romano Alessandro Parini, investito e ucciso lo scorso venerdì sera a Tel Aviv da Yousef Abu Jaber, palestinese cittadino israeliano di 45 anni. Il rimpatrio sarà effettuato con un volo di stato, l’atterraggio è previsto intorno alle 14.

Nelle stesse ore, i compagni di viaggio del 35enne saranno sentiti dai carabinieri del Ros. A indagare sulla sua morte e sul ferimento di altri due italiani è la Procura di Roma. Tra loro il 38enne Roberto Nicoli, residente a Bergamo, tuttora in Israele: è stato operato a Tel Aviv, non è grave, ma non sarà dimesso prima di qualche giorno.

DOMENICA, INTANTO, sono arrivati i risultati dell’autopsia compiuta dall’Istituto di medicina forense della capitale israeliana sul corpo di Parini: nessuna delle ferite riportate dal giovane sono imputabili a colpi di arma da fuoco, come inizialmente avanzato da alcuni media israeliani e italiani.

Abu Jaber non ha sparato contro Parini e il gruppo di turisti falciati dall’auto lanciata ad alta velocità, una versione nata dalle prime testimonianze degli agenti sul posto, secondo cui il palestinese «ha preso un oggetto simile a un’arma che si trovava accanto a lui». L’unica “arma” trovata nell’auto era una pistola giocattolo.

Né avrebbero aperto il fuoco i poliziotti, come altre fonti avevano sollevato sulla stampa israeliana. Ovvero che eventuali proiettili – quelli con cui gli agenti hanno abbattuto Abu Jaber disteso a terra – avrebbero colpito anche Parini.

AD APRIRE IL FASCICOLO di indagine per attentato con finalità di terrorismo e lesioni sono stati i pm di Piazzale Clodio, coordinati da Michele Prestipino. Perché di dubbi ne restano pochi: quello di Abu Jaber sarebbe stato un atto intenzionale, non un incidente come ipotizzato – o almeno non scartato – dalla polizia israeliana. Lo confermerebbero velocità e traiettoria dell’auto, catturata da una telecamera di sicurezza, e gli esiti preliminari dell’autopsia in corso sul corpo di Yousef Abu Jaber.

Secondo i medici non avrebbe avuto un ictus. Ipotesi su cui la famiglia del 45enne insiste, parlando di colpo di sonno o di malore, a loro avviso le uniche possibili spiegazioni all’accaduto. Gli Abu Jaber – che si sono messi a disposizione degli investigatori italiani – chiedono di poter vedere le immagini di tutte le telecamere di sicurezza, comprese le bodycam degli agenti, ma la polizia ha finora rifiutato di renderle pubbliche.

Abu Jaber non faceva parte di gruppi politici né aveva manifestato opinioni tali da far maturare l’idea di un attentato. Posizione che la famiglia in qualche modo condivide con gli investigatori israeliani che confermano l’assenza di comportamenti sospetti.

DI PIÙ se ne sarebbe potuto sapere se non fosse stato giustiziato sul posto dalla polizia. «Gli agenti che gli hanno sparato hanno assunto il ruolo di giudice ed esecutore, lo hanno processato lì in mezzo al prato», ha detto il fratello Omar. È la pratica dello shoot to kill, ampiamente criticata dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani ma che resta la più ricorrente verso i palestinesi, attentatori veri e presunti.

Come ricorrente è la narrazione politica che viene fatta. Ultimo esempio è il video pubblicato su Twitter dal primo ministro israeliano Netanyahu: foto in loop di combattenti a volto coperto che distribuiscono dolciumi in Cisgiordania per – scrive il premier – «celebrare l’uccisione di Alessandro Parini. Diffondete la verità».

UNA “VERITÀ” ripresa da politici italiani, dal leader della Lega e ministro dei trasporti Salvini («Estremisti islamici celebrano la morte di Alessandro Parini con dolciumi e pasticcini») al capogruppo alla Camera di Forza Italia Mulè («Le immagini della distribuzione di dolci ai passanti da parte di gruppi armati palestinesi, per celebrare l’uccisione di Alessandro Parini, è una scena raccapricciante»).

Nel post però Netanyahu non cita le fonti dei contenuti né le date delle immagini diffuse (quando e dove siano state scattate né cosa rappresentino), un’assenza evidenziata da centinaia di commenti in coda al post, in grande maggioranza lasciati da cittadini israeliani.