La seconda giornata di votazioni degli emendamenti al premierato, ieri in Senato, si è conclusa con la decisione della conferenza dei capigruppo di contingentare i tempi dell’esame del ddl Casellati: 30 ore complessive di dibattito, suddivise tra tutti i gruppi, che dovrebbe portare a un voto finale dell’aula di Palazzo Madama il 18 giugno. Questo, almeno, nelle intenzioni: si tratta di una decisione forte del centrodestra che tuttavia preoccupa più chi l’ha presa che non chi la subisce. Come si è intuito scrutando i volti dei partecipanti alla riunione al momento della loro uscita: sardonici quelli delle opposizioni, tirati quelli della maggioranza, a partire da quello di Guido Liris, che sostituiva il capogruppo di Fdi Malan.

Per capire tale preoccupazione occorre ripercorre quanto accaduto in aula prima della capigruppo, tenutasi alle 15. In oltre 5 ore di seduta, dalle 9 alle 14,15, sono state bocciate o saltate – grazie al canguro che permette di votare insieme diversi emendamenti simili – solo circa 40 proposte di modifica sulle 147 del solo articolo 1, e sulle quasi tremila all’intero provvedimento. Un risultato identico a quello di mercoledì, deludente o meglio frustrante per Fdi e per la ministra Casellati. E questo non solo per l’efficacia dell’ostruzionismo di tutte le opposizioni (anche Iv e Azione), ma soprattutto per l’algida noncuranza teatralmente messa in scena dalla Lega: quando all’inizio della seduta sono intervenuti tutti i capigruppo, per il centrodestra hanno preso la parola Malan per Fdi e Gasparri per Fi, ma né Massimiliano Romeo né altri leghisti hanno chiesto di intervenire. Dopo un’oretta è anche mancato il numero legale per le troppe assenze nella maggioranza, soprattutto nella Lega, il cui unico big presente era Calderoli. Al ministro non è stata strappata una risposta alla domanda se ci sia un nesso tra la freddezza della Lega sul premierato e quella di Fdi e Fi sull’autonomia differenziata, ferma alla Camera. A Montecitorio, infatti, l’aula è stata impegnata con il Superbonus e altri provvedimenti, e la settimana è passata senza che iniziassero le votazioni sul ddl Calderoli come sperava il partito di Salvini.

Tornando alla capigruppo, in quella sede Liris e Gasparri hanno minacciato forzature con un voto finale sul ddl prima delle europee dell’8 e 9 giugno. «Prego, accomodatevi» è stata la risposta delle opposizioni. Il fatto stesso che il presidente La Russa abbia tentato una mediazione, proponendo un voto finale concordato il 13 giugno, poi spostato al 18, ha dimostrato la difficoltà della maggioranza rispetto a una prova muscolare. E questo per le evidenti divisioni tra Fdi, spalleggiato da Fi, e la Lega, come hanno sottolineato i capigruppo di Pd e 5S, Boccia e Patuanelli. Quindi al contingentamento dei tempi il centrodestra è stato costretto un po’ per non perdere la faccia, un po’ per frustrazione, un po’ per costringere la Lega a ricompattarsi sulla maggioranza.

Le opposizioni hanno fatto muro, rifiutando ogni tipo di accordo. Ora si preparano a mettere in campo nuove forme di ostruzionismo. Il regolamento consente a ciascun gruppo di intervenire per 5 minuti su ogni emendamento, ma una volta esaurite le 14 ore (su 30) spettanti a Pd, M5S, Avs, Iv e Azione, questi non potranno più chiedere la parola. Si moltiplicheranno quindi le richieste di intervento sull’ordine dei lavori, le richieste di verifica del numero legale, e altri trucchi che magari facciano perdere la pazienza ai senatori di Meloni.

Intanto da Asti, citando l’ex presidente del Consiglio Giovanni Goria, Sergio Mattarella ha trovato il modo di dire che «questa non è solo la Costituzione del nostro passato, ma anche quella del nostro futuro». Un messaggio abbastanza esplicito, senza essere un intervento sui lavori del parlamento che il presidente evidentemente osserva con attenzione.