Visioni

Osservare il mondo per inventarne narrazioni possibili

Osservare il mondo per inventarne narrazioni possibiliItalo Calvino – Foto Getty

Libri «Guardare», Mondadori, raccoglie numerosi scritti di Calvino tra cinema, fotografia, arte, collezioni. A cura di Belpoliti, il volume propone una riflessione sull’aspetto visivo del linguaggio

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 luglio 2023

Tra astrazione e senso concreto, carneo delle cose, quasi sempre in stretta relazione, reciprocità, e in attinenza con la «visagéité», con l’uscita dall’imperio del soggetto, del suo viso «profondamente» connotato; tra immaginazione e ragione, e poi dimensione metatestuale; senso della superficie (al di là di profondità psichiche) e vertigine cosmologica (come in alcune Cosmocomiche); all’origine dell’esperienza creativa e speculativa di Italo Calvino sembra esserci un nucleo, un’accensione visuale. Non il semplice cogitare ma un che di contemplativo rivolto all’estensione e complessione delle cose. «La narrazione che ne deriva sviluppa una logica interna all’immagine stessa», scrive Marco Belpoliti nell’introduzione a Italo Calvino, Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni, edito da Mondadori.

Belpoliti ci ha abituato a uno sguardo in tralice su alcuni degli autori più rappresentativi del ’900 italiano, come se l’obliquità della prospettiva rischiarasse – ed effettivamente lo fa – più ampie sezioni di senso: il caso di Pasolini in salsa piccante è emblematico. Qui, a proposito di Calvino, pur non trattandosi di una monografia, Belpoliti sposta il fuoco della propria ottica dalla dimensione narrativa a quella iconologica (pur evidenziando un’osmosi continua tra i due orizzonti), illustrandone la gamma.

ALLA BASE v’è il metodo, una gnoseologia, quello che Calvino stesso in una lettera a François Wahl chiama «un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro». Nella lezione americana sulla Visibilità ne spiega i gradi: osservazione del mondo, trasfigurazione, poi l’astrazione di questa materia immaginale che introduce l’elemento geometrico, contrassegno, a ben guardare, del postmoderno calviniano. Da qui si giunge alla condensazione, il passaggio da uno stadio all’altro del visuale e all’interiorizzazione che dà un segno, anzi un disegno, un indirizzo specifico alla narrazione. Ma se la creazione va in crescendo, incremento di stadi, la critica, soprattutto quella cinematografica – i cui testi sono raggruppati in questo Guardare a partire dal 1941 – va in decrescendo, traendo motivi, decostruendo il visuale altrui, il cinema, riducendolo a isobare di base, a ipostasi essenziali dell’immaginario. Sono teorie, in realtà meno di quanto ci si aspetterebbe da uno scrittore così consapevole dei meccanismi scritturali: colpisce ad esempio la recensione negativa alla Finestra sul cortile, senza cogliere le implicazioni teoriche del continuo guardare, spiare del protagonista. Si tratta per lo più di enucleazioni di attanti ideologici, in sintonia con lo spirito militante di riviste come «Cinema nuovo» per la quale Calvino negli anni Cinquanta fungeva da inviato ai festival (quello di Venezia soprattutto); sono scavi del portato cinematografico per arrivare a delle definizioni della realtà più che del testo, dei «macchinismi» testuali.

A LIVELLO teorico risultano più congruenti i testi scritti sulla fotografia e l’arte, superfici – cubiste o fantasmatiche che siano, astratte oppure oniriche – su cui sperimentare l’oggetto, il geometrico al di là del soggetto. Sono i testi cinematografici a partire dagli anni Sessanta, mentre Calvino andava perfezionando il proprio stile narrativo in uscita dai nidi del Neorealismo; i testi su Antonioni, Bellocchio, Bunuel, Fellini ad avere un certo rilievo teorico, spesso a definire una volta per tutte, icasticamente, la poetica di questi autori, nonostante Calvino, rivendicando la propria posizione di spettatore, avesse dichiarato la predilezione per il cinema degli anni Trenta, quello popolare, «avventuroso» (un cinema dell’alterità rispetto a questo mondo) al centro della sua infanzia, piuttosto che per il cosiddetto cinema d’autore. Ma quando si ritrova a fare il critico (e il teorico) ne derivano inferenze notevoli.

PERCIÒ a proposito di Fellini, «in lui la biografia è divenuta cinema a sua volta, è il fuori che invade lo schermo, il buio della sala che si rovescia nel cono di luce». O a leggere la recensione dei Pugni in tasca, si capisce che è tutta l’estetica di Bellocchio a essere precisamente definita, già a quel tempo, quando il regista aveva girato un unico lungometraggio. Si ha l’impressione di leggere una recensione di Rapito: il balenare e basculare dei motivi romanzeschi; la sospensione del giudizio; l’agnosticismo dell’assunto.

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