Belpoliti, opacità e trasparenza tra de Canistris e Ghirri
Novecento italiano Il monaco pavese che disegnava mappe visionarie, il fotografo che interpretava la nebbia, i CCCP, l’anguilla di Montale e Berger... Un viaggio intellettuale-affettivo di Marco Belpoliti nella Pianura (Padana), da Einaudi
Novecento italiano Il monaco pavese che disegnava mappe visionarie, il fotografo che interpretava la nebbia, i CCCP, l’anguilla di Montale e Berger... Un viaggio intellettuale-affettivo di Marco Belpoliti nella Pianura (Padana), da Einaudi
Un classico della letteratura danese del Novecento, Arabia Felix di Thorkild Hansen, racconta la spedizione organizzata nel 1761 da Federico V di Danimarca con l’obiettivo di esplorare le terre dell’attuale Yemen e approfondire la conoscenza dei luoghi delle Sacre Scritture. Dall’avventura nella «terra della felicità» (così veniva chiamata la penisola arabica meridionale, per un antico equivoco linguistico) tornò sano e salvo solo il cartografo Carsten Niebuhr, un individuo pragmatico e camaleontico che testimoniò l’infrangersi del sogno di trovare un paese ideale in cui il cielo e la terra si confondono. Con l’evocazione di un altro cartografo danese quasi contemporaneo di Niebuhr, Christian Tuxen Falbe, si apre il nuovo libro di Marco Belpoliti Pianura (Einaudi «Frontiere», pp. 286, € 19,50). Inviato in Nordafrica come diplomatico nella prima metà dell’Ottocento, Falbe si dedicò a disegnare mappe dei siti di rovine e riscoprì la divisione del territorio in appezzamenti regolari realizzata dai romani, e rispettata nei secoli anche dagli insediamenti successivi. Quella geometria chiamata centuriazione, una «proiezione del cielo su di noi», è la stessa che Belpoliti riconosce nel reticolo di terreni della Pianura Padana, sua terra d’origine e oggetto del viaggio affettivo e intellettuale al centro del libro. E c’è forse anche qualcosa di Niebuhr, nello sguardo che l’autore esercita nelle sue pagine, un equilibrio tra desiderio enciclopedico e disincantata consapevolezza che la visione delle cose è sempre legata a una prospettiva personale, a una memoria, a una tonalità emotiva.
A questo si aggiunge anche l’idea che la descrizione di ogni luogo è il risultato di due forze, l’ideale cartografico che tenta di portare la molteplicità a sistema, l’irregolarità alla geometria, la terra al cielo; e la fuga della storia e della natura, che rompe i margini della mappa. Pertanto, sembra suggerire Belpoliti, l’unica forma possibile per parlare di un luogo è quella dell’autobiografia, o perlomeno del racconto che affonda nel vissuto personale e si rivolge a un interlocutore, tramandando o condividendo un’esperienza. È proprio questa la particolarità del libro, rivolgersi a un «tu» che non viene mai ricondotto a un’identità precisa. Senz’altro ha i connotati di un amico dell’autore, di un suo conterraneo, di qualcuno con cui ha condiviso esperienze di vita: ma è un «tu» vago a sufficienza da permetterci, a poco a poco, di sostituirci a lui, di sentire che proprio noi siamo guidati per mano nei luoghi e nei tempi che ci vengono narrati.
Nell’abbraccio di questo tono «familiare», l’incontro tra idealità e vita si ripropone come motivo ricorrente. Per esempio, in figure come quella di Opicino de Canistris, il monaco pavese del Trecento che, reduce da una grave malattia, si dedicò a disegnare mappe visionarie, popolate di mostri, santi, isole e anche di suoi parenti, finestre che spalancano lo sguardo sulla psicosi di un individuo e di un’epoca (si veda, tra le molte pubblicazioni sul tema, il volume illustrato di Sylvain Piron Dialettica del mostro edito da Adelphi nel 2019). Che la follia padana di Opicino, si chiede Belpoliti, sia «l’effetto provocato dalla centuriazione romana? Una reazione necessaria e forse anche utile alla razionalità di quella griglia che stringeva come una grata o inferriata la forma stessa del territorio?». Se i mostri che Opicino disegna forse lo sono, non è però meno rilevante l’ordine stesso in cui si inscrive il getto della sua fantasia: «il terrore è contornato e sorvegliato. I mostri stanno dentro l’ordine tracciato da Opicino con mano sicura». L’universo, con le sue passioni e deliri, per il monaco pavese è sempre compreso in una forma di mandorla, che è poi la stessa losanga riconoscibile nel profilo della pianta cittadina di Reggio Emilia, la città da cui Belpoliti proviene.
La dialettica tra idealità e vita ha una sua declinazione anche nel territorio dell’utopia: l’ideale politico irrealizzato (e forse irrealizzabile) appartiene alla generazione dell’autore come educazione sia sentimentale sia artistica. E la Pianura Padana è terra dell’utopia in entrambi i sensi, nei suoi antichi fermenti rivoluzionari così come negli esperimenti diversi, ma di comune sentire, che hanno tentato di coniugare vita e arte (il mulino-falansterio di Bazzano di Adriano Spatola e Giulia Niccolai, il lavoro teatrale di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, i CCCP / CSI / PGR di Giovanni Lindo Ferretti).
Geometria e utopia, poi, sono sorelle di un più ampio concetto di «trasparenza», ambiguo ideale-guida di uno dei maggiori interpreti del territorio padano, il fotografo Luigi Ghirri. Per Ghirri, l’obiettivo della fotografia deve essere una cancellazione del reale che permetta di vedere le cose per come appaiono davvero: la meta finale è una suprema trasparenza, raggiunta però attraverso l’opacità, che è rappresentata dalla nebbia protagonista di moltissime sue immagini. «Ogni visione – scrive Belpoliti – è l’effetto congiunto di questo doppio movimento: opacità e trasparenza», e la pianura è afferrabile solo a patto di rendersi sensibili ai doppi movimenti, perché la sua natura è duale, mescolanza di terra e acqua, di orizzonte e cielo, «una sorta d’incommensurabile, dove però c’è sempre una misura».
È per questo che il suo simbolo, quasi un animale totem, sembra essere l’anguilla della foce del Po, già fonte d’ispirazione per Montale e John Berger. «L’anima verde che cerca / vita là dove solo / morde l’arsura e la desolazione» dei versi raccolti nella Bufera è un animale che cambia più volte forma e colore, che continuamente muore e rinasce a sé stesso, che viene da lontano – dal Mar dei Sargassi – ma che trova casa nei corsi d’acqua e nei canali d’irrigazione padani. E che poi intraprende un lungo viaggio per tornare a riprodursi e a morire nell’Oceano dove è nato, compiendo un arco in cui vita e morte, punto di partenza e punto d’arrivo si toccano.
Forse è proprio questo lo scopo di ogni viaggio: dirigersi dove «l’emergere antico di tutte le cose si fa più vicino», come ha scritto il filosofo Reiner Schürmann nel suo memoir Le origini. Ed è anche lo scopo del tragitto compiuto da Marco Belpoliti in questo libro, che non a caso si conclude con un capitolo sulla chiesa di San Prospero degli Strinati di Reggio Emilia, per l’autore luogo di riunioni famigliari, al limitare di un cimitero oltre cui si intuiscono i ponti di Calatrava sull’Autostrada del Sole. La pianura è tutta lì, tra gli stralli disegnati dall’archistar e il muro di mattoni del camposanto ai margini della città: non è definita, non è compresa, ma forse non era questo l’intento del percorso. Lo era invece, per dirla ancora con Schürmann, «divenire porosi, per cogliere il centro».
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