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Ora è bene che iniziate la vostra rivoluzione

Ora è bene che iniziate la vostra rivoluzione

Cari compagni Ignorare la cura riproduttiva vi ha fatto comodo per non indebolire le forme di produzione sociale

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

Il tragico assassinio di Giulia Cecchettin si inserisce in un quadro sempre più violento dei rapporti sociali e personali di genere. Le reazioni sono state immediate, sono diventate momenti di liberazione dall’oppressione individualista perché il ritrovarsi insieme conforta. Molte e molti si sono riconosciuti pubblicamente nelle forti parole di Elena, la sorella di Giulia, negli slogan di Non Una Di Meno, nella rabbia di Cristina Torres Càceres.

Non è il primo femminicidio e non è nemmeno l’ultimo. Non solo in Italia, ma in molti dei paesi democratici d’Europa l’elenco dei femminicidi è lungo. Nessuno può imputare il fatto a una cultura diversa, a un rapporto malato, a famiglie problematiche, a persone non ben inserite nel loro contesto sociale. Non è possibile giustificare l’accaduto con una distanza di costumi, di cultura, di relazioni che possa rassicurare il nostro vivere quotidiano. C’è la drammatica consapevolezza che si tratta di rapporti normali, di persone e di famiglie ben integrate nella struttura sociale del Veneto profondo. C’è il riconoscimento che noi siamo i genitori, che noi siamo Giulia, che Filippo è nostro figlio, che viviamo dentro una rete di rapporti di potere economici, culturali e sociali tra i sessi che producono relazioni mortali.

I femminismi, e in particolare NUDM, lo hanno detto e ripetuto nelle analisi e nelle lotte. Nelle scuole, nelle Università nelle piazze non si è voluto il silenzio, ma il rumore per non dimenticare, per esistere, per non restare mute e muti di fronte a questo mondo che produce violenza, guerra, rapporti violentemente asimmetrici. Le analisi femministe hanno chiarito che questo è il frutto di una civiltà patriarcale che, attraverso la famiglia tradizionale, ha finora garantito più o meno ordinati sviluppi produttivi anche all’interno del moderno sistema capitalistico.

Ma risulta evidente che questo sistema sta subendo gli effetti di un cambiamento epocale di cui vediamo i tremendi colpi di coda. Difficilmente questo viene imputato alle lotte delle donne. Non si riesce a riconoscere che gli spazi acquisiti dalle donne di libertà su di sé, sul proprio corpo, sui propri desideri sono irreversibili e potenti. Di fronte ad un sistema traballante di violenza strutturale, ritroviamo il femminicidio come omicidio di potere.

Molti compagni, sinceramente rivoluzionari (ma per quale rivoluzione? Con quali tempi, con quali coinvolgimenti?) ora prendono parola per dire cose che il femminismo dice da anni. Anche «partire da sé». Va bene, finalmente! Non possiamo che essere felici che molti uomini, soprattutto giovani, siano intervenuti alle manifestazioni di piazza contro i femminicidi. Ma non basta partecipare a una manifestazione, non basta affermare il desiderio di cambiamento partendo da sé: non è solo la volontà che è in gioco, ma la materialità dei corpi, l’intero immaginario dei desideri, la propria personale collocazione nelle relazioni personali e sociali. Vorrei dire: smettetela di spiegarci in che mondo viviamo, noi qui ci moriamo. Abbiamo iniziato tanto tempo fa una rivoluzione di cui non avete voluto capire la dimensione inarrestabile. Oggi è ben ora che iniziate la vostra. Sia chiaro, ci fa piacere quando riconoscete che abbiamo «lottato bene», che il cambiamento parte davvero da noi. Noi stiamo già cambiando il mondo, con i nostri tempi, con la forza costruita sulla base delle nostre esperienze e delle nostre vite. Diciamo e pratichiamo. Sappiamo già che il patriarcato (anche se ormai zoppicante e sbugiardato) funziona ancora bene nel sistema capitalistico. Sappiamo che vive sulla violenza dei rapporti di genere, anche se ora deve avvalersi dei regimi di destra per mantenere un certo rigore. Ma vive anche sull’indifferenza nell’interpretazione di questi rapporti malati come prodromici al consolidamento del sistema. Indifferenza che molte femministe hanno sentito tutte le volte che hanno tentato di modificare il baricentro delle analisi politiche centrandolo sulle loro esperienze personali e politiche, mentre costruivano legami transnazionali contro questa violenza pandemica. Che capitalismo e patriarcato vadano a braccetto lo sappiamo già tutte e tutti, ma sono ancora lette con distrazione le nostre analisi e viste con invidia le nostre lotte. Per voi quello che non è immediatamente visibile nei rapporti di forza finora sembra non esistere.

Tanto per essere chiare: non abbiamo bisogno di esperti di liberazione delle donne. Più utile sarebbe invece che cominciaste a pensare come decostruire la vostra maschilità, magari relazionandovi con la cura riproduttiva (non solo di voi stessi, ma anche di chi si trova intorno a voi). Cura che è stata elegantemente delegata accettando che il capitalismo strutturasse una rigida divisione sessuale del lavoro, mentre veniva data preminenza alle forme di produzione sociale senza soffermarsi sulle dinamiche riproduttive.

Non è certo il caso di fare womansplaining e d’altronde non sapremmo nemmeno come fare per spiegarvi come «partire da voi», possiamo solo dirvi quanto a noi è costato farlo, quanto sia stato difficile riflettere sull’accettazione delle definizioni di sé che ci sono state inculcate fin dall’infanzia, quanto questo abbia coinvolto sentimenti, sicurezze, determinato scelte e quanto coraggio ci sia voluto per farlo pubblicamente. Abbiamo dovuto rivoltare le nostre vite, cercare di definire dove fosse il nostro desiderio e quanto fosse lontano da quello che voi ci attribuivate, quanto l’amore per voi diventasse per noi sfruttamento e limitazione della nostra stessa esistenza. Abbiamo dovuto far uscire l’analisi dalla patologia della singola situazione, interrogare le relazioni singolarmente e insieme, soprattutto insieme. Abbiamo rifiutato la famiglia patriarcale da cui eravamo partite e in cui eravamo state educate, accettando le solitudini, stroncando le radici dei rapporti di possesso che vivevamo come «normalità». Spesso abbiamo fallito e pagato singolarmente quello che socialmente stavamo conquistando.

Per noi è stata una gran fatica e lo è ancora. Ogni passo di emancipazione è stato ed è pagato duramente, con scelte di vita radicali, con posizionamenti che ci hanno alienato gli affetti e che ci hanno obbligato a decostruire il nostro mondo di prima. Il percorso che abbiamo fatto ci ha costrette a modificare l’idea di politica, ad allargare i contenuti dei rapporti di forza da costruire. Non abbiamo perso il contesto materiale di sfruttamento che ci teneva (e ancora ci tiene) soggiogate, nonostante il nostro anelito alla liberazione: l’obiettivo transnazionale di NUDM è il reddito di autodeterminazione congiunto a richieste di modificazione delle allocazioni della spesa pubblica, a istanze di realizzazione di elementi di uguaglianza sostanziale e di valorizzazione del lavoro riproduttivo. Le espressioni delle piazze di questi giorni segnalano una consapevolezza collettiva della necessità di interrogarsi e scoprire il senso delle relazioni di cura in una circolarità che non veda rapporti di dipendenza o di obbligo, verso un cambiamento radicale. E da questo punto non si torna indietro.

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