L’8 marzo 1920, alla Galerie Barbazanges di Parigi, vengono eseguiti Un salon e Chez un bistrot, due nuovi brani di Erik Satie. Sono i primi saggi pubblici della sua musique d’ameublement, musica d’arredamento, espressamente concepita per una fruizione distratta.
Prima che i musicisti comincino a suonare, il compositore stesso invita il pubblico a parlare, bere e camminare durante l’esecuzione. Nonostante le sue indicazioni, gli spettatori non riescono a fare a meno di riprendere diligentemente posto all’attacco delle prime note. «Parlate, camminate, non state lì ad ascoltare!», urla Satie, vanamente. Esperimento fallito, ma è solo questione di tempo.

DUE ANNI dopo George Owen Squier, maggiore dell’esercito a stelle e strisce, brevetta un sistema di filodiffusione ante litteram successivamente ribattezzato Muzak: una crasi tra music e Kodak per una musica istantanea ed economica, brutta ma democratica. L’omonima azienda sarà la prima a specializzarsi nella sonorizzazione degli ambienti di lavoro, forte di un report redatto nel 1937 per la British Industrial Health Research, in cui si afferma che «la musica può ridurre l’assenteismo e aumentare la produttività, nei luoghi dove i lavori sono particolarmente ripetitivi».
Il principio per cui i suoni hanno facoltà di incidere sul comportamento dell’ascoltatore, in definitiva, è lo stesso da cui in quegli anni prenderà piede la musicoterapia. Per centrare il loro obiettivo, le ricette della Muzak prescrivono melodie chiare e lineari, ritmi regolari e non troppo vivaci, frequenze medie ideali per ogni sistema di riproduzione e per orecchie anch’esse medie. Si puntualizza anche il dosaggio: successioni di brani per mezz’ora al massimo – le nonne delle playlist – inframmezzate da alcuni minuti di silenzio (da cinque a quindici) onde evitare che l’assuefazione prevalga sulla stimolazione.
Questa nuova e dirompente musica d’arredamento si diffonde dalle fabbriche ai negozi, spopola negli ascensori, accompagna linee telefoniche e sale di ospedale, laddove le attese sono più gravose. Risuona finanche nei mattatoi. La finalità è prettamente economica: consumare musica per produrre, produrre musica per consumare.

CENT’ANNI dopo, è il caso di dire che la sua diffusione è amplificata in misura esponenziale. In un’epoca affetta da fobia del silenzio, la background music invade le nostre orecchie ad ogni angolo di spazio pubblico, o per ingannare l’attesa al call center. E quando la chiamata è terminata cosa facciamo? Andiamo a cercare i rassicuranti jingle su YouTube: Opus 1, «hold music» di una nota multinazionale del networking, conta milioni di visualizzazioni. Va bene tutto, purché non si resti in silenzio.La sua potenza è tale da impedire una relazione autentica tra noi e lo spazio che ci circonda, relegandoci a una sonora passività e inibendo la nostra produzione di suoniIn un articolo pubblicato su «Musica/Realtà» nel marzo 2020, il musicologo Manuel Farolfi propone un resoconto dei più rilevanti studi internazionali sugli effetti della sonorizzazione negli spazi commerciali. E così scopriamo che quando siamo in pausa pranzo, aumentando i bpm (beats per minute) della musica in sottofondo aumenta, in maniera proporzionale, anche il numero di bocconi al minuto; viceversa, se il metronomo rallenta restiamo a cena più a lungo, ordinando volentieri un’altra bottiglia. Quanto al volume, decibel e gradazione alcolica sembrano danzare a braccetto: chi non ha voglia di un’altra pinta quando al pub parte un buon vecchio hard rock?
Particolarmente interessante, infine, uno studio di qualche anno fa intitolato The Influence of Music on Consumers’ Temporal Perceptions: Does Time Fly When You’re Having Fun?. Secondo la ricerca degli studiosi inglesi J.J. Kellaris e R.J. Kent, arrangiamenti diversi di uno stesso brano – in maggiore, minore o atonali – corrispondono a differenti percezioni della medesima durata. La musica in maggiore riscuoterebbe il più alto indice di gradimento, provocando una dilatazione temporale del 38%.

La redazione consiglia:
Uno spettro canoro si aggira per la retePrendono nota i compositori di musiche d’attesa, ma i dati sono altrettanto sensibili per gli alfieri del neuromarketing, fautori di un consumo emozionale, sensoriale, esperienziale. E cosa c’è di meglio di una musica banale per stimolare i sensi e le emozioni? Il consumatore, insomma, non è un essere razionale (grazie per la considerazione).
Ma se gli esercenti si mostrano soddisfatti, raggianti sono le aziende del settore, major della tappezzeria musicale come Touch Tunes e Mood Media (che nel 2011 ha rilevato proprio Muzak Holdings per 345 milioni di dollari): la background music è lanciata verso un futuro roseo, tutto in tonalità maggiore, in cui la soglia dei due miliardi di dollari annui sarà varcata entro l’inizio del prossimo decennio.

MENO MALE che c’è ancora qualche dissonanza. Già nel 1988, nel saggio Listening And Soundmaking: A Study of Music-as-Environment, Hildegaard Westerkamp – compositrice, ecologista ed esponente del World Soundscape Project – si scagliava contro l’onnipresenza di suoni induttori e sottofondi che fanno da soundtrack obbligatoria alle nostre attività quotidiane. Musica ambientale, la definiva l’autrice, espressamente composta per essere ignorata, racchiude in sé un paradosso: più ce n’è, meno viene ascoltata. Eppure, la sua potenza è tale da impedire una relazione autentica tra noi e lo spazio che ci circonda, relegandoci a una sonora passività e inibendo la nostra personale produzione di suoni (a partire ovviamente dalla parola).

BENCHÉ espressa trentacinque anni fa, la critica di Westerkamp conserva ancora la sua natura politica: «Muzak ha origine negli Stati Uniti, che si definiscono una democrazia. Eppure le composizioni e la sua modalità di trasmissione hanno tutte le qualità attribuite alla musica dei regimi totalitari: tonalismo; primato della melodia; diffidenza verso nuovi linguaggi, codici o strumenti; rifiuto dell’anormale».
Cent’anni dopo la musique d’ameublement di Satie, non abbiamo più bisogno che qualcuno ci inviti a bere e distrarci mentre la soundtrack perpetua si fa largo nel nostro canale uditivo. Seduti al lounge bar con vista mare, degustiamo con apparente noncuranza un’altra playlist, altrettanto lounge, di quelle che mescolano stili e mondi musicali in un solo bicchiere, depurandoli da ogni traccia di vitalità culturale. È il nuovo melting pot, dicono. Dalla filodiffusione parte un ultimo pezzo, Smells Like Teen Spirits in versione bossa nova. «Il conto, grazie».