In questi bui giorni di crisi di governo, finalmente un bella cosa: il secondo raduno europeo dei Friday for Future, convocato a Torino e i cui lavori ho avuto l’onore di aprire insieme al segretario della Fiom Michele Di Palma e a Carlo Petrini, inventore e leader di Slow Food. Una boccata d’aria: migliaia di ragazze e ragazzi pieni di voglia di politica, ma che temo appartenganosi, in Italia quasi certamente ma credo altrettanto negli altri paesi fra quelli che – una cifra enorme, 60 % da noi, 57% in Francia, e cosi via – al partito di chi si astiene.

Vorrei che non fosse così, ma capisco: nonostante l’impegno di validi movimenti ambientalisti e di qualche pezzo di sinistra, del disastro che incombe sulla terra non solo non c’è riflesso nel dibattito istituzionale, ma sembra che non ci sia neppure consapevolezza. (E questa è solo una delle sottovalutazioni gravi, cui va aggiunta la guerra e l’ineguaglianza).
Dico queste cose perché non vorrei più sentire ripetere che «i giovani non si interessano alla politica», come se la politica legittima fosse solo quella che vive nelle aule del parlamento. Quello di cui si è discusso in questi 4 giorni nel camping lungo il fiume Dora, nell’Aula magna dell’Università statale, lungo il corteo che ieri ha percorso le vie di Torino a conclusione dell’evento, cosa era?

Da quando Greta Thunberg ha cominciato a sedersi tutti i venerdì davanti al parlamento del suo paese per richiamare l’attenzione dei governi sulla gravità dei fenomeni climatici sempre crescenti, il movimento da lei ispirato si è diffuso in tutto il mondo, è cresciuto e maturato.
Gli FFF ora non protestano solo, anche se va loro dato il merito grande di avere scosso con le loro manifestazioni di strada un’opinione pubblica distratta e ingannata. Oggi hanno acquisito competenze che pochi hanno, ed è molto significativo che proprio a Torino si sia costituito uno dei gruppi più attivi del movimento: in una città dove l’identità operaia è stata più devastata senza che si sia ricostruita una prospettiva alternativa a quella del modello industriale dello sviluppo non più sostenibile. E dove dunque più amara e difficile appare l’assenza di una vera strategia di transizione che preveda investimenti in settori non nocivi ma indispensabili a una vita più equa, chiamiamola pure «diversamente felice»: meno consumo individuale di beni merci superflui più servizi collettivi per l’istruzione (lungo l’arco di tutta la vita, ormai, se non si vuole che le nuove tecnologie riducano l’occupazione, come è altrimenti previsto, del 75 %): per la salute, per le città da rendere abitabili sì da sollevare dal peso del lavoro di cura le donne su cui tuttora grava questo enorme fardello che impedisce di rendere concreto il diritto alla parità formalmente strappato.

Le ragazze e i ragazzi di FFF hanno fretta, e hanno ragione di averla. Non ci aspetta lo status quo: i felici (sempre relativamente ) anni post bellici del miracolo socialdemocratico sono stati possibile perché la continua espansione della produzione industriale offriva i margini necessari al compromesso sociale che ha consentito di strappare significative riforme. Oggi l’ecologia ci dice che quel modello non sarà più possibile e dunque l’alternativa che si offre è molto più radicale: o cambiamo questo modello e prendiamo sul serio i temi che il movimento ecologico ci pone o andremo ad uno scontro sociale violento.

Come avviare questa vera «rivoluzione necessaria»? Questo è l’interrogativo che emerge dal raduno di Torino, perché gli interventi dei giovani nella aula magna dell’Università, dimostravano tutti la consapevolezza di non potersi più limitarsi alle denunce, ma di dover mettere meglio i piedi sul territorio per aprire specifiche vertenze su specifici, concreti, urgenti obiettivi. Anche perché qualche volta bisogna portare a casa una vittoria anche se settoriale. Se ogni tanto non si vince, poi ci si avvilisce e si lascia perdere – ho detto nel mio intervento a Torino. Ed è la frase che è piaciuta di più.