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Oltre il terrore

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Storia contemporanea Un'intervista a Laura Guazzone, docente di Storia dei paesi arabi e specialista dell'Islam politico. «La strategia jjhadista colpisce il nemico lontano, l'occidente, per abbattere quello vicino, gli stati musulmani creati artificialmente dal colonialismo»

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 17 gennaio 2015

Gli attentati di Parigi non sono isolati. Solo partire dalla Francia nel marzo 2012 ci sono stati gli attacchi di Tolosa (7 morti, tra cui 3 bambini della scuola ebraica) e a giugno 2014 l’attentato al museo ebraico di Bruxelles (4 morti). Tutto sembra essere iniziato nel 2004 con gli attentati di Madrid e l’anno successivo con quelli di Londra. A Laura Guazzone, specialista di Islam politico arabo e docente di storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma chiediamo da quale dibattito emerge la strategia che intende portare la guerra politico-religiosa del Jihad in Europa. «Poco prima di essere catturato dalla Cia nel 2005, Abu Musab al-Suri, forse il più lucido degli strateghi di al-Qaida, ha pubblicato sul web un libro di 1600 pagine, intitolato ’La chiamata al Jihad globale’ (Da‘wa al-muqawama al-islamiyya al-‘alamiyya) – risponde Guazzone – dove ha elaborato la ‘giustificazione’ ideologica e la strategia militare del Jihad (guerra santa) da condurre con tecniche di guerrilla contro l’Occidente, anche agendo individualmente. Le tattiche suggerite con dovizia di dettagli nel più noto testo strategico di al-Qaida prevedono stragi (negli stadi, nei mezzi di trasporto), anche con armi di distruzioni di massa, ma pure attacchi ad obiettivi particolarmente vulnerabili come gli intellettuali, gli ebrei, i bambini».

Qual è l’obiettivo di questa strategia?
Costringere col terrore i paesi occidentali a rinunciare al loro controllo politico-militare sui paesi musulmani, un ritiro che provocherebbe anche la caduta dei regimi empi e asserviti che governano questi paesi. È la strategia della guerra portata al «nemico lontano» (l’Occidente) per abbattere il «nemico vicino» (i regimi musulmani empi), liberando il mondo musulmano dagli stati nazionali creati artificialmente dal colonialismo e sgombrando il campo per l’obiettivo finale: la riconduzione di tutto l’ecumene islamico (la umma) in un’unica entità politica ortodossa, il califfato, premessa per la diffusione dell’Islam in tutto il mondo (sull’ideologia di al-Qaida: Fawaz Gerges The Far Ennemy 2009).

Chi è Abu Musab al-Suri?
Un iconoclasta, critico di Bin Laden e della casistica religiosa del fondamentalismo islamico. Per lui la vittoria del jihad non sarà regalata da Dio, ma sarà frutto di una strategia militare razionale di lungo periodo iniziata in Europa con gli attacchi di Madrid, ispirati – se non direttamente organizzati – dallo stesso al-Suri. Dopo aver acquisito la nazionalità spagnola per matrimonio, ha contribuito a creare le reti jihadiste in Europa ed è tornato in Pakistan. Poi è stato consegnato dagli Usa al regime siriano in una delle famigerate renditions della Cia e il regime siriano l’ha fatto uscire di prigione nel dicembre 2011, probabilmente come scambio utile alla guerra per la sopravvivenza del presidente Bashar al-Asad. Lo stesso regime che, pur continuando a massacrare i suoi oppositori armati e disarmati, non ha mai contrastato militarmente le milizie dell’Isis. Grazie alle cattive strategie della «guerra al terrore» occidentale, il principale teorico del jihad oggi è libero.

Dal 2001 in poi abbiamo imparato a riconoscere in Al Qaeda un «logo» del terrore. Oggi sono nati altri soggetti, come i movimenti «takfiristi» e l’Isis, che rendono la scena politica del Jihad molto più ampia e articolata rispetto a 15 anni fa. Di cosa si parla, oggi, quando si parla di «islam politico»?
Ovunque tranne che in Tunisia, i movimenti moderati dell’Islam politico derivati dai Fratelli musulmani sono in declino. Loro hanno rifiutato la lotta armata dagli anni Ottanta scegliendo la partecipazione politica riformista. Il declino attuale dell’islamismo moderato è dovuto a diversi fattori. Un fattore decisivo è senz’altro la repressione durissima di questi oppositori da parte dei regimi restaurati. Ma un fattore importante è anche la disaffezione popolare per i movimenti islamisti moderati, che per i musulmani «qualunque», e particolarmente per i liberali, si sono dimostrati incapaci di realizzare per via riformista la promessa trasformazione democratica, ma rispettosa dei valori islamici, dei sistemi politici dei loro paesi. Va infine aggiunto che, proprio per il loro impegno sulla via politica riformista, sinora inconcludente, i movimenti islamisti moderati sono criticati «da destra» da quelli islamici più conservatori.

Che cosa intendono i jihadisti per partecipazione politica?
Collaborazionismo coi regimi apostati. Per i movimenti salafiti invece gli islamisti avrebbero abbandonato la difesa rigorosa dei «veri» valori islamici che, per loro, non risiedono come per i riformisti anche nei diritti umani e politici, bensì esclusivamente nella morale e nell’ortoprassi.

Nel quadro degli sconvolgimenti in corso nel mondo arabo, a causa degli autoritarismi perduranti come pure della perdurante occupazione israeliana dei territori palestinesi, degli esiti dell’intervento della Nato in Libia e dell’occupazione americana dell’Iraq, l’ala vincente dell’Islam politico – dalla Siria al Mali e alla Nigeria – è oggi quella jihadista, non quella riformista dei Fratelli musulmani, rappresentata ad esempio da partiti moderati come Ennahda in Tunisia o il PJD in Marocco. Tra i movimenti jihadisti è, poi, in corso una complessa competizione tra al-Qaida e i movimenti cosiddetti neo-takfiristi (da takfir, accusa di apostasia, che secondo questi movimenti riguarda tutti i musulmani che non aderiscono al jihad ed è punibile con la morte). In Siria, l’Isis è neo-takfirista e combatte con le armi il Fronte al-Nusra, emanazione di al-Qaida.

Chi sono gli europei musulmani che scelgono di diventare jihadisti?
Talvolta, sono individui di scarsa istruzione generale e religiosa, che ignorano le differenziazioni politiche e le sottigliezze ideologiche dei diversi movimenti, e hanno un passato di emarginazione sociale e piccola criminalità, in cui la prigione sembra aprire la via alla radicalizzazione. Ma questo è un nesso causale che non sempre viene confermato negli studi. Coloro che vengono inviati nei paesi musulmani per prepararsi al jihad, ricevono un addestramento militare, ma la loro formazione ideologica resta limitata all’indottrinamento di base. Per i musulmani europei, il jihad è senz’altro una scelta identitaria, di rivalsa individuale e di reazione all’islamofobia dilagante, ma non è certo la scelta consapevole di una prassi rivoluzionaria specificamente diretta contro l’esclusione sociale.
Rispetto a questo scenario, qual è la novità emersa dagli attacchi a Parigi?
I Kouachi hanno agito per al-Qaida, mentre Koulibaly ha fatto riferimento all’Isis. Jihadisti europei, soci di una stessa cellula «fai-da-te», hanno agito insieme, mentre i movimenti a cui fanno riferimento si combattono con le armi e hanno posizioni ideologiche diverse rispetto a questioni non marginali. Al-Qaeda considera legittimo colpire l’Occidente e i regimi empi. L’Isis colpisce anche tutti i musulmani che non partecipano al jihad. Al-Qaida considera il califfato come l’obiettivo ultimo dopo l’abbattimento dei nemici vicini e lontani. Per l’Isis va realizzato qui e ora, come anche per Boko Haram e altri.

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