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Olga Tokarczuk, chi si ferma si fa pietra

Olga Tokarczuk, chi si ferma si fa pietraAneta Grzeszykowska, da Selfie, 2014

Narrativa polacca Un collage postmoderno dove i personaggi si avvicendano come in un panopticon: da Bompiani, «I vagabondi», membri di una setta sempre in moto per sfuggire all’Anticristo. Oggi, l'autrice sarà a a "libri Come" all'Auditorium di Roma

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 17 marzo 2019

Dietro l’apparenza di una Wunderkammer popolata di mummie e preparati sotto formalina, il variegato collage postmoderno di Olga Tokarczuk, I vagabondi (traduzione di Barbara Delfino, Bompiani, pp. 384, euro 20,00) riproduce nella sua struttura l’intrico del sistema circolatorio, forse ancora più nitido allorché il fluire del sangue viene rimpiazzato dalla algida sostanza di cui gli anatomopatologi che popolano queste pagine vanno alla ricerca per rendere eterna l’instabile natura degli organi corporei.
Il romanzo – una sorta di silva rerum dei giorni nostri – si muove tra il polo macroscopico dei voli intercontinentali, delle migrazioni, dei pellegrinaggi, e quello microscopico del dettaglio anatomico, dell’incisione, dell’indagine minuta. Al tempo stesso, Tokarczuk – probabilmente la voce più importante della narrativa polacca odierna – sembra prospettarne (e privilegiarne) un terzo: il polo di una provvisorietà esistenziale, di potenzialità inespresse e svariatamente riverberate in una moltitudine di destini individuali.

Una dimensione instabile
I personaggi evocati nel titolo, i bieguni, sono i membri di una setta di camminanti continuamente in moto per paura che attraverso la stanzialità possano facilitare all’Anticristo il compito di raggiungerli e di impadronirsi di loro: non a caso, chi si ferma «si fa di pietra». Eppure una diversa accezione del termine – in polacco biegun significa per l’appunto «polo» – sembra aver lasciato anch’essa un segno sulla struttura del testo, che si estende tra gli estremi del micro e del macrocosmo («ci sono persone che vedono le cose piccole e persone che vedono solo le cose grandi»), tra meraviglia barocca e rigore positivista, tra dimensione spaziale e temporale, tra il tepore del quadro d’interni e il gelo del teatro anatomico.

Una instabilità liquefatta sembra essere, in I vagabondi, la dimensione egemone, filtrata dall’esperienza dei numerosi aeroporti evocati tra queste pagine, dove negozi, bar, ristoranti simulano la persistenza della vita stanziale, così da camuffare la provvisorietà dell’attesa di un altrove, reale ragion d’essere di questi luoghi.
Instabile e interstiziale è d’altronde la natura stessa del viaggio che prevede il ritorno a un «qui», ma non più a un «ora» e che quindi esibisce una rottura del continuum temporale, rimpiazzando la circolarità della permanenza con la (illusoria) linearità della proiezione in avanti. Una instabilità che si realizza nel fluire delle vicende di personaggi effimeri come Kunicki, che sperimenta la sparizione della moglie e del figlio durante una vacanza estiva sull’isola di Vis, oppure il dottor Blau, plastinatore di corpi umani, o ancora Josephina Suliman, sfortunata orfana di una delle mummie esposte nel Gabinetto di Portenti Naturali dell’imperatore Giuseppe II.

A sua volta la linea narrativa centrata sulle vicende dei protagonisti delle trame fabulari si infrange contro una miriade di fulminei e talvolta fulminanti incisi autoriali: istantanee di viaggio, epifaniche reminescenze odeporiche, autoteliche riflessioni metaletterarie, annotazioni apparentemente accidentali sul tema del movimento, che possono riguardare le reliquie e il pellegrinaggio ai luoghi santi, la traslazione del cuore di Chopin, una prova di stereometria di viaggio, il sacchetto per il mal d’aria fornito sugli aerei o la mappa della Grecia.

Nel macrocosmo circolatorio delle narrazioni spicca il ritratto biografico di Filip Verheyen, l’anatomopatologo autore dell’atlante Corporis Humani Anatomia costretto a sperimentare letteralmente sul proprio corpo la separazione tassonomica degli organi a causa di un’amputazione della gamba, da allora conservata rigorosamente sotto preparazione, così da non precluderle la possibilità della resurrezione. Verheyen è lui stesso figura interstiziale, sospeso tra teologia e medicina, tra disegno e dissezione, tra arte e scienza.
Anche l’economia dell’opera riflette questa disposizione: Tokarczuk fa raccontare una biografia reale a una figura d’invenzione, quella dell’amico e discepolo Willem Van Horssen, in un gioco di specchi che ha il suo riflesso nel Verheyen Project, esposto a New York dall’artista concettuale indiana Sreshta Rit Premnath nell’anno 2006. Se l’autrice convalidava la biografia (fittizia!) contenuta tra il 2005 e il 2015 nella relativa voce di Wikipedia con una rappresentazione pittorica dell’eroe eponimo intento ad anatomizzare il proprio organo amputato, la scrittrice – che ha evidentemente attinto alla stessa fonte – sembra segnalare al lettore le tracce da seguire nel breve paragrafo intitolato «Wikipedia», ironicamente definita come «il progetto di conoscenza più onesto che l’uomo abbia mai realizzato» grazie al quale «cominceremo a sferruzzare la nostra visione del mondo, a circondare il globo terrestre con il nostro racconto».

I dubbi della scrittrice riguardano la possibilità, o meglio la necessità di esprimere quanto non sappiamo, la pars sinistra, il sostrato irriducibile a qualsiasi sinossi e inattingibile a un qualsivoglia motore di ricerca: nella dicotomia tra materia e antimateria, tra informazione e antiinformazione, Tokarczuk sembra scegliere – senza segnalarlo – lo spazio intermedio tra i due ambiti, felicemente sospeso tra l’imperativo scientista della falsificabilità dell’esperimento e l’inventio artistica.

L’avvicendarsi dei personaggi all’interno del libro assume un andamento da panopticon: le immagini delle effimere esistenze narrative degli uni si trascinano dietro quelle degli altri in un continuum circolare. Così la biografia di Verheyen comporta quella del chirurgo Ruysch, colui che ha cercato di assicurare l’immortalità alla sua gamba amputata, celebre artefice di preparati anatomici che finiranno nelle collezioni naturalistiche di Pietro il Grande: la Russia a sua volta rievoca la vicenda gogoliana di Annuška, che a Mosca viene visitata da energie infere, e decide di intraprendere la sua fuga da un’esistenza insopportabile, anzi dal Male stesso.

Del panopticon il libro di Tokarczuk ha la pretesa di sistematizzare il mondo proiettandolo in frammenti dove la vita appare come congelata sotto un vetrino, e le cui infinite potenzialità sembrano catturate negli intervalli tra un fermo immagine e l’altro. E a partire dalla metà del libro chi legge non staccherebbe più lo sguardo dagli oculari puntati su un universo di camminanti, espressione di una umanità libera: se non fosse, talvolta, per la traduzione, che è di quelle che si è soliti definire «parola per parola», dove alcune locuzioni suonano approssimative nella resa: per esempio l’ebanite diventata plastica, un personaggio «torna» a una stazione in cui non è mai stato, oppure un altro – leggiamo – «si appende come a un rasoio», secondo un fraseologismo polacco di cui sarebbe stato opportuno trovare un equivalente funzionale italiano.

Il prossimo titolo
Forse penalizzata finora nella ricezione in Italia dalla ermeticità dei suoi temi prediletti (Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, pubblicato da Nottetempo nel 2012 è una raffinata commistione di elementi folklorici ed esoterici in forma di noir), Tokarczuk ha vinto di recente l’International Man Booker Prize proprio con I vagabondi, libro che per alcuni aspetti, fra cui il tema delle sette, anticipa il suo capolavoro, Ksiegi jakubowe (Il libro di Jakub, dedicato al mistico ebreo Jakub Frank, il cui sottotitolo eloquentemente restituisce quel che dal libro dobbiamo attenderci: Viaggio attraverso sette confini, cinque lingue e tre grandi religioni, senza contar le piccole.

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