Cultura

Nuto Revelli, in prima linea, fra i «mai vinti»

Nuto Revelli, in prima linea, fra i «mai vinti»Nuto Revelli, foto di Giovanna Borgese

Il personaggio Un ritratto nel centenario della nascita dello scrittore e partigiano. Il suo lascito politico, letterario e civile ci consegna al senso profondo della nostra inadeguatezza. Di sé diceva: «Sono un autodidatta della ricerca, sono una persona che vuole capire la società in cui vive»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 27 giugno 2019

Non si può parlare di Benvenuto «Nuto» Revelli, nel centenario della nascita, se non partendo dalla nostra inattualità. Nel senso che l’Italia per la quale egli combatté, pressoché ininterrottamente per tutta la durata della guerra di Liberazione e poi anche dopo, poco o nulla ha da spartire con il paese nel quale ci troviamo a vivere nel nostro presente.

Il suo lascito politico, letterario e civile ci consegna quindi al senso profondo della nostra inadeguatezza. Forse è questo il suo suggello più significativo e, quindi, duraturo. La sua figura è infatti legata, nel medesimo tempo, a una lunghissima stagione, che inizia con un’educazione fascista (la «generazione del Littorio»), che si alimenta dell’impegno bellico, che continua nella Resistenza e prosegue come testimone dell’epoca repubblicana; così come a un nucleo di autori e interpreti morali del Novecento italiano quali Primo Levi, Mario Rigoni Stern ma anche, benché del tutto inconsapevolmente, Leone Ginzburg ed Emanuele Artom.

DELLA PIEMONTESITÀ di molti di essi (e di altri, tra i quali Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Giorgio Bocca), il nume tutelare rimane Piero Gobetti. Il tratto d’unione tra uomini tanto giovani quanto solidi, accomunati dall’avere la schiena diritta, è dato dalla scoperta, attraverso le diverse esperienze che ognuno di loro fa nei luoghi e nei tempi suoi propri, di una società che cerca faticosamente e contradditoriamente le vie dell’emancipazione. Sono tutti giovani e sostanzialmente soli nel momento in cui si rendono conto che dietro la finzione della cartapesta, non solo del regime fascista ma anche di istituzioni che tradiscono il loro mandato, c’è la realtà di una comunità brulicante di individui.

Il loro impegno è quindi quello di dare a essa un lessico della libertà, forgiandolo con la propria azione. Il rapporto tra il fare, ossia l’impegno concreto, e la riflessività sul significato delle cose che si cercano di realizzare, è ciò che più li rende distanti rispetto alle tragiche pantomime del mussolinismo ma anche di un liberalismo astratto, elitario e sostanzialmente indifferente al concreto destino delle comunità umane. Il senso della responsabilità, da questo punto di vista, è quindi prioritario e si accompagna alla costruzione di un percorso di liberazione dal bisogno di ingannare ed essere ingannati.

Il tema rimane per l’appunto quello gobettiano del «che ho a che fare io con gli schiavi?». Un tema che si ripeterà anche a Liberazione compiuta. Nuto Revelli portava su di sé la consapevolezza del rapporto tra libertà e rigore del ruolo, alla quale non era per nulla estranea la sua formazione militare, dove i rapporti gerarchici potevano essere letti secondo una doppia chiave: deferenza e dipendenza ma anche autonomia e intraprendenza. Soprattutto, bisogno di reagire. La guerra partigiana, di cui fu protagonista di primaria grandezza, diretto e costante testimone delle sue discontinuità, del suo pluralismo sofferto e irrisolto, ne rappresenta un passaggio capitale.

REVELLI RIMANE, al riguardo, un esempio imprescindibile delle speranze ma anche dei disagi, della fame di futuro come anche delle contraddizioni di quel presente, che accompagnò la milizia tra le valli. Questo di più di consapevolezza gli derivava in tutta probabilità dall’essere stato, in origine, un militare di professione, uso al mestiere delle armi, come formazione ma anche in coscienza. La sua storia, peraltro, è sufficientemente nota. Diplomato sottotenente del Regio Esercito dall’Accademia militare di Modena (avrebbe terminato il suo servizio con il grado di maggiore, congedato nel 1949, per poi essere nominato generale nel ruolo d’onore delle forze armate), nel 1942 partì con la divisione Tridentina, in qualità di ufficiale volontario degli alpini, per il fronte russo.

Ebbe così modo di vivere direttamente la tragedia corale della guerra dell’Est. Non si sottrasse al combattimento, rimanendo ferito, guadagnandosi decorazioni e promozioni per poi tornare in prima linea.

IL SUO ANTIFASCISMO maturò non malgrado ma grazie a questa esperienza militare, anche se poi della «divisa» avrebbe dato, a guerra conclusa, un severissimo e insindacabile giudizio. E iniziò a modellarsi nel confronto con la rotta delle truppe italiane dell’Armir, durante la catastrofica ritirata nel gennaio 1943, dinanzi al primo tradimento tedesco.
Terra, neve, suolo e sangue russo lo permearono, portando un ancora giovanissimo militare, di estrazione medio borghese, a confrontarsi con le radici della pervicace resistenza orientale. Un secondo passaggio fondamentale nella formazione del giovane Revelli fu l’osservare dalla sua Cuneo, città alla quale rimase legato per tutta la sua esistenza fino alla morte nel 2004, la caduta del regime prima e il tracollo dell’8 settembre, con l’arrivo dei tedeschi come occupanti.

POCHI GIORNI DOPO, in una situazione di assoluta confusione, quando nulla poteva ancora essere predetto, si diede alla formazione di una delle prime unità resistenti, riconoscendovi il ruolo di «banda», formazione militarizzata atipica, basata sull’auto-organizzazione, sul disciplinamento attraverso l’esperienza, sul rapporto costante con il territorio, sulla rigenerazione dei motivi militari secondo criteri partecipativi. In questa dimensione innovativa, dove le relazioni sociali venivano ricostruite sulla base della condivisione di una comune esperienza di milizia, al medesimo tempo combattente e politica, diede ulteriore spessore alla sua figura di italiano libero.

LA SUA VENA LETTERARIA già allora emergeva, come compositore di motivi partigiani, destinati poi a diventare colonna sonora della memoria resistente. Del transito bellico, della sua lunga stagione, avrebbe poi consegnato ripetute manifestazioni in testi come Mai tardi. Diario di un alpino in Russia (1946), La guerra dei poveri (1962), La strada del Davai (1966), L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale (1971).

La necessità di testimoniare attraverso il tracciato letterario nasce in lui, d’altro canto, al pari di autori che gli sono coevi, dal bisogno di dare voce a ciò e a coloro che altrimenti avrebbero rischiato di non vedersela riconoscere in alcun modo (i «sordomuti della storia»), inabissandosi completamente. Il tema del «mondo sommerso» non lo avrebbe mai abbandonato. Fare il partigiano significava esplorare, conoscere, confrontarsi con il territorio: fauna, flora, umanità varia, a partire da quella delle campagne e delle colline, già investita da un’irrisolta modernizzazione ma, al medesimo tempo, legata ancora e soprattutto a un’ancestralità di abitudini, gesti, condotte, saperi e marginalità. Le sue frizioni con i comunisti si generano anche all’interno di questa traiettoria, dove la coscienza di un borghese si confronta con le discontinuità di un proletariato contadino che non è in alcun modo assimilabile ai referenti sociali che per il partito operaio erano invece l’orizzonte della sua azione politica.

Ciò facendo, nel momento in cui con due opere come Il mondo dei vinti (1977) e L’anello forte (1985) Revelli si rivolge all’universo sociale dell’esclusione rurale e femminile, si afferma come pionieristico contributore allo sviluppo della storia orale nel nostro Paese. Nella quale dà un contributo visionario che, per più aspetti, lo rende drammatico novatore di elegie per una Spoon River tutta italiana. Quello che dal 1945 sarebbe stato un insoddisfatto e irrequieto democratico, vicino ai «miti giacobini» come Galante Garrone (ma anche ad un troppo velocemente dimenticato Carlo Casalegno), lavorando quindi come imprenditore («sono un geometra», diceva di sé, schernendosi), orientò definitivamente la sua riflessione su quattro assi privilegiati: il territorio, l’esperienza, la memoria e il presente.

IL COLLANTE era la sua esperienza di alpino, una sorta di dimensione esistenziale, ontologica, comunque il filo rosso che coniugava identità a materialità della cose, il dire al fare, il pensare al testimoniare. Al mondo dei vinti lo univa peraltro un carattere intimamente schivo, estraneo alla ribalta. Dinanzi alle crescenti sollecitazioni, avrebbe sempre ribadito che «non sono né uno storico, né un sociologo, né un antropologo. Sono un autodidatta della ricerca, sono una persona che vuole capire la società in cui vive. Sono quello che sono e basta».

I temi della lentezza, come un tempo altro da quello industriale e urbano; della mediazione linguistica per capire e farsi capire; del porsi nella condizione di ascoltare, tutti coltivati già nelle relazioni militari e partigiane, emergono d’altro canto in molte delle sue successive pagine. E ritornano negli affreschi di ricerca di alcuni dei suoi ultimi libri, come Il disperso di Marburg (1994) e Il prete giusto (1998), sospesi tra microstoria e indagine indiziaria.

Esponente della cultura laica e democratica ma sostanzialmente alieno da immediate identificazioni partitiche (con l’eccezione della crepuscolare esperienza di quello d’Azione), continuò fino all’ultimo dei suoi giorni ad adoperarsi per dare sostanza alla cultura antifascista, attraverso l’impegno per la trasmissione non solo di valori ma soprattutto di immagini e voci di un tempo trascorso, che non può dirsi integralmente compiuto se non si travasa in quello a venire attraverso il moto della coscienza civile.

***

Tre anni intensi di iniziative

Il Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita ha in programma (2019 -2021), un ricco calendario di attività, in collaborazione con la Fondazione Nuto Revelli e la città di Cuneo. A Paraloup il 13 luglio, opening di «Beyond the border» di Luca Prestia e conferenza di Federico Faloppa e Adriano Favole (sui confini), mentre il 20 si aprirà la mostra fotografica «Ricordarti di non dimenticare» a cura di Paola Agosti e Alessandra Demichelis. Il 5 e 6 ottobre sarà la volta del convegno «Nuto Revelli protagonista e testimone dell’Italia contemporanea». Il 10 dicembre, a Torino, l’incontro dedicato ai rapporti tra Nuto Revelli e Primo Levi con l’editore Giulio Einaudi. In Germania, ci sarà la lezione di Gianluca Cinelli all’Università di Marburg il 18 luglio e proseguirà a Parigi con anche la giornata di studio alla Sorbona sui temi della Resistenza. Saranno inoltre presentate le traduzioni francesi de «La guerra dei poveri» e «Le due guerre di Nuto Revelli», che usciranno nell’autunno 2020. Nel 2021 le celebrazioni saranno a Bruxelles, Brema e Lione.

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