È già stato battuto il record di 34 anni di prigione per post critici del regime saudita, comminati alla dottoranda della Leeds University e attivista Salma al-Shebab a inizio agosto. Una corte anti-terrorismo del regno dei Saud ha condannato Nourah bint Saeed al-Qahtani a 45 anni di carcere con l’accusa di «utilizzare internet per distruggere la fabbrica sociale» e di «violare l’ordine pubblico usando i social media».

UNA MANNAIA si è abbattuta sulle donne saudite, e sulle attiviste in particolare, nel corso degli ultimi anni: arresti, lunghe detenzioni condite di torture e abusi sessuali, processi-farsa che il regime di Riyadh prova a mitigare con esili aperture (il diritto di guidare o quello di viaggiare senza il permesso del guardiano) e ricevendo da visite internazionali ai massimi livelli il beneplacito a proseguire (il viaggio di Joe Biden dello scorso luglio docet).

Di al-Qahtani si sa poco: l’associazione saudita Dawn (Democracy for the Arab World Now, fondata dal giornalista Jamal Khashoggi, fatto a pezzi da una hit squad saudita nel consolato di Istanbul nell’ottobre 2018) fa sapere di essere venuta a conoscenza del caso solo dopo aver ottenuto il suo fascicolo da fonti interne al tribunale: «Le accuse contro di lei sono molto ampie. Usano la legge anti-terrorismo e la legge anti-cybercrime che criminalizzano ogni post che è anche solo lontanamente critico del governo».

«Nel caso di al-Qahtani – ha poi aggiunto il direttore di Dawn, Abdullah Alaoudh – le autorità saudite l’hanno imprigionata solo per aver twittato le proprie opinioni». Preoccupazione la esprime anche l’ong saudita Alqst: «Come temevamo, stiamo assistendo a un allarmante deterioramento della situazione dei diritti umani in Arabia saudita».

NEL MIRINO degli attivisti sauditi c’è anche l’amministrazione Biden e quel Partito democratico che negli anni di presidenza Trump aveva esercitato pressioni con pochi precedenti perché venissero rivisti aiuti militari e accordi commerciali con un regime libertidica.

Una volta alla Casa bianca, però, ha restituito a un decadente principe Mohammed bin Salman la legittimità necessaria ad agire indisturbato. Lunedì il Dipartimento di Stato Usa era intervenuto sul caso di al-Shebab ribadendo di aver reso chiaro all’alleato «che la libertà di espressione è un diritto umano universale». Non devono aver capito.

LA CONDANNA ABNORME di al-Qahtani giunge pressoché in contemporanea con un altro fulgido esempio di repressione del dissenso. Un caso che sta invadendo i social media sauditi grazie a un video rubato e reso pubblico martedì: agenti della polizia morale sauditi, spalleggiati da uomini in abiti civili, prendono a bastonate e a cinghiate un gruppo di donne nell’orfanotrofio femminile di Khamis Mushait, nella provincia di Asir.

Tra loro – nota su Twitter Ali Al Ahmed, noto analista saudita, fondatore e direttore dell’Institute for Gulf Affairs – si riconosce Mohamed Yahia Al Binawi, capo della polizia della città. La «colpa» di quelle donne: aver iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di vita nell’orfanotrofio.

Al video e alla rabbia di saudite e sauditi esplosa sui social, le autorità hanno risposto annunciano l’apertura di un’inchiesta. Ma il problema resta: il regime ha intensificato la repressione di qualsiasi forma di dissenso, vero e presunto, e di realtà che si discostano dal modello di «perfetto cittadino» del regno, l’uomo saudita sunnita. La spirale risucchia donne, migranti, sciiti, giornalisti.