All’inizio c’è la regista, Claire Simon che seguendo la sua ombra, quasi come una guida ci introduce nello spazio dell’ospedale specializzato in ginecologia teatro del suo nuovo film Notre corps, presentato in anteprima al Forum della scorsa Berlinale, ora evento speciale a Cinéma du Reel di Parigi, il festival del documentario che si chiude oggi.

«Il nostro corpo» è il corpo delle donne colto nei suoi diversi passaggi, dalla giovinezza alla vecchiaia, tra desiderio, scoperta di sé, maternità, malattia, morte. Un corpo molteplice, che prova a sottrarsi qui a quanto lo intrappola, alle rappresentazioni codificate in una cultura secolare di vergogna, oppressione, luoghi comuni, silenzi che la società degli uomini produce su di esso. Un corpo imperfetto, magnifico, potente, che non è quello patinato dai dettami delle mode ma appartiene alla quotidianetà della vita. E narra un’ esistenza attraverso tante diverse persone, che arrivano da paesi e culture diverse, che esprimono esigenze specifiche, compresa quella di non volersi riconoscere in quel corpo ma di volerne cambiare il genere, che raccontano in ogni parola, sguardo, timore, dolcezza il nostro mondo e le questioni che pone.

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IN QUESTA cartografia universale entra a un certo punto anche la regista che davanti alla macchina da presa scopre di avere un cancro grave mettendosi in gioco in quell’universo orizzontale di cui la cura è principio fondante, e egualitario, che lei sa cogliere e restituire con precisione. Non c’è retorica emotiva in viaggio di scoperta che è quasi un’avventura, durante il quale conosciamo la nostra realtà di donne e di persone, anche nel fuori campo di un maschile che viene costantemente interrogato. Con passione e delicatezza Simon ci conduce dunque nel «nostro corpo» come non lo avevamo mai visto, illuminandone storie, emozioni e soprattutto quella potenza simbolica che continua ancora adesso a spaventare nella sua libertà.

Il corpo delle donne e quanto su di esso si inscrive in termini di cultura, società, politica, sentimenti racchiude il mondo. Come hai lavorato in una realtà che è molto intima, con ciascuna delle persone che deve condividere un suo privato rendendolo frammento della collettività?

L’idea era quella di restituire attraverso le diverse storie la vita di una donna dalla giovinezza alla vecchiaia alla morte attraverso quei passaggi fondamentali che la caratterizzano, come l’amore, il desiderio, la gravidanza, la maternità, la scoperta del gender, la malattia. In quest ospedale siamo un contesto di uguaglianza, non ci sono differenze tra le donne migranti e quelle borghesi o le senza fissa dimora: ciascuna ha diritto alla cura allo stesso modo Nel dispositivo del film volevo che fosse chiaro il riconoscimento personale in quanto donna, e prima ancora del momento in cui passo davanti alla macchina da presa divenendo con la scoperta della mia malattia una paziente. È per questo che all’inizio entro in campo, volevo essere sicura che questo movimento tra una dimensione soggettiva e una oggettiva fosse evidente.Gli uomini vogliono controllare le donne perché sanno che la loro esistenza dipende dal desiderio femminile, il suo potere simbolico spaventa

Hai incontrato difficoltà nel filmare?

Una scena da “Notre corps”

A volte sì, avevamo per esempio una sequenza molto bella con una donna migrante velata che all’inizio aveva accettato di farsi riprendere ma quando ha visto il suo corpo svestito ha detto di no. Ho fatto dei sopralluoghi per diversi giorni, poi ho preparato un testo che ho inviato a tutte in cui dicevo che se accettavano di farsi filmare la loro testimonianza sarebbe stata di aiuto anche per le altre. Non è solo un problema legato alle diverse religioni, è capitato lo stesso con alcune donne francesi e borghesi i cui mariti si sono opposti come se il corpo delle donne gli appartenesse per diritto.

Una volta ho chiesto a una donna se voleva partecipare al film e il marito ha risposo:«No». Gli ho detto che non lo avevo domandato a lui. Un’altra ragazza aveva accettato di farsi filmare durante il parto ma il compagno non voleva, era preoccupato che si vedessero «le sue parti intime». Il senso di vergogna rispetto al corpo femminile è sempre molto forte, e così i tabù che lo soffocano. Lo stesso vale per la fertilità che nell’educazione è quasi ossessiva, come se una donna fosse tale solo se è fertile, se può avere figli cancellando la libertà che fa parte della decisione di essere madre o di essere ciò che si vuole.

È ancora attuale quello che diceva Simone de Beauvoir in Il secondo sesso a proposito del fardello della riproduzione, e del suo rapporto con la sessualità che connota anche quello delle donne rispetto a se stesse nel passare delle diverse età. Gli uomini vogliono tenerle sotto perché sanno che sono le donne a generarli e che quindi la loro sopravvivenza dipende dal desiderio femminile. La mancanza di controllo li fa impazzire, hanno paura che le donne riescano a raggiungere l’uguaglianza. In questo giocano un ruolo anche donne orribili, perché, proprio perché siamo uguali, per ogni uomo orribile esiste una donna orribile.

Rispetto alla maternità seguiamo l’intero percorso della maternità assistita dalla parte dei pazienti e da quella dei medici, in un modo che è molto forte.

La prima impressione è stata per me quella di vedere un decoupage del coito. È chiaro che per le donne è molto più doloroso con l’impianto degli ovociti e tutto il resto. C’è anche una parte fisica nell’azione dei medici, nel gesto dello loro mani quando inseriscono lo spermatozoo nell’ovulo, quasi fossero un demiurgo. In quel laboratorio l’atmosfera che ho colto è davvero fantastica, c’è una grande motivazione rispetto a una sfida che purtroppo però non sempre riesce.

Il film mostra con grande dolcezza diverse scene operatorie come un intervento su un caso di endometriosi, altre come il parto che è una sequenza bellissima, che riguardano l’esplosione di vita e altre ancora che invece toccano la morte. In che modo hai trovato il tuo posto da regista rispetto a ogni situazione?

La cosa che mi interessava più di tutto era mostrare i corpi delle donne, e non quelli un po’ plastificati che vediamo sempre sulle riviste ma quelli veri. Nella relazione con i medici mi piaceva il modo in cui loro guidano le diverse pazienti alla consapevolezza del loro corpo, a un sapere «anatomico» che è molto diverso da quello che pensiamo, di fronte al quale siamo spesso sorpresi o sperduti. Quello che si crea è un rapporto tra il linguaggio e il corpo col quale viviamo ma che non sappiamo nominare mai nella sua interezza. Ho ripreso anche molti incontri tra i medici, mi piacevano i loro racconti e l’idea che il corpo delle donne potesse essere narrato anche in quel modo.

E le due sequenze di cui dicevamo? Rispetto all’edometriosi tra l’altro, a proposito di «nominare le cose», è una malattia di cui si parla pochissimo ma che influenza terribilmente la vita di molte.

Si, è nuovamente anche a causa dei condizionamenti culturali sulle donne, la scena della ragazza che preferisce soffrire piuttosto che curarsi è molto indicativa. La sofferenza è un altro aspetto dell’oppressione, quando la dottoressa chiede alla donna che sta per partortire se è stata escissa, in modo da preparare meglio il suo parto, e lei risponde sì, capiamo che questa ragazza non ha mai provato piacere; ha un marito vecchio e lei che ha solo sofferto per avere rapporti sessuali volti alla procreazione.

Riguardo l’endometriosi, ne sappiamo poco eppure è molto diffusa con esiti invalidanti tra le giovani donne. Sarebbe fondamentale riconoscerla per dare loro la possibilità di curarsi meglio – anche rispetto al lavoro, ai giorni di congedo ecc. Ho ripreso le operazioni perché volevo mostrare il nostro corpo dall’interno, e non come una forma di sperimentazione dell’immagine ma per conoscerlo ancora più da vicino, per assumerne una coscienza Nel parto ho cercato di filmare di profilo, volevo che il viso della mamma fosse legato a quello del bambino che stava venendo al mondo.

Quando hai deciso di filmarti?

Avevo già in mente d riprendere una conversazione di diagnosi di un cancro, pensavo di chiedere a una persona in sala d’aspetto di prestarsi a una messinscena di questa situazione. Quando ho fatto i miei esami e mi hanno convocata mi è sembrato ovvio che ci fossi io davanti alla macchina da presa, non potevo certo farmi interpretare da un’altra!

E poi ero convinta che non fosse niente di grave. La dottoressa, Sonia Zilberman era contraria, ma io sono andata avanti. E quando mi hanno detto cosa avevo è stata dura, ho filmato senza filtri, nello stesso momento che lo scoprivo, è stato davvero un colpo terribile. Mi sembrava impossibile, era come un incubo.

Anche «Les Bureaux de Dieu» (2008), metteva al centro il corpo delle donne.

Lì però si parlava di maternità, contraccezione, aborto; qui in questo ospedale che per questo trovo formidabile, si tocca ogni aspetto della ginecologia con le diverse questioni che pone. E questo mi ha permessoi di lavorare su aspetti del corpo femminile in modo che non è mai stato fatto al cinema.