Una storia di storie. Un momento e un luogo che, all’incrocio dello spazio e delle epoche finiscono per fissare per sempre nella memoria collettiva un avvenimento e la sua rappresentazione, segnando una stagione e, in qualche modo, inaugurandone un’altra. Quando, il 20 novembre del 1945 nel Palazzo di Giustizia di Norimberga si apre il processo ai vertici del regime nazista, gli occhi del mondo sono puntati sulla città del nord della Baviera che di quel sistema omicida era stata per altro una tragica vetrina. Un’attenzione che, in una realtà internazionale ancora dominata dall’orrore per le devastazioni e la carneficina della guerra, e per il crescere della consapevolezza del genocidio che il nazismo aveva perpetrato anche lontano dal fronte, si protrarrà per un anno. Il procedimento si sarebbe concluso il primo ottobre del 1946 con la condanna a morte di dodici dei ventidue imputati, tra loro alcuni degli ideologi, dei ministri, dei leader del Terzo Reich, come degli organizzatori della Shoah, tra gli altri von Ribbentrop, Kaltenbrunner, Rosenberg e Frank, tre all’ergastolo, quattro dai 10 ai 20 anni di reclusione, compreso Albert Speer, l’architetto di Hitler le cui gravi responsabilità erano state riconosciute solo in minima parte, mentre tre verranno assolti.

A QUELLE UDIENZE fu permesso di assistere ogni giorno ad oltre quattrocento spettatori, tra loro moltissimi giornalisti e corrispondenti esteri provenienti da più di ventitré Paesi, per un totale di 325 testate tra giornali, radio e agenzie di stampa: furono loro, grazie a reportage, articoli e interviste a far entrare ogni giorno milioni di persone nell’aula di quel tribunale, contribuendo per molti versi a dare corpo a quella che in seguito si sarebbe definita sempre più spesso come l’opinione pubblica internazionale. A raccontare la prima volta che una Corte penale internazionale giudicava i crimini contro l’umanità e la barbarie della guerra nazista, furono cronisti al loro esordio, ma destinati a lunghe e illustri carriere, giornalisti già noti e affermati, scrittori, artisti e intellettuali, ma anche qualche futuro politico, che avrebbero impresso il proprio segno nella seconda metà del Novecento, quando gli eventi che si trovarono a descrivere all’epoca erano ormai divenuti uno dei fondamenti della memoria collettiva.

FIGURE COME QUELLE di Ernest Hemingway, Hannah Arendt, John Steinbeck, Erika Mann, Alfred Döblin, John Dos Passos, Rebecca West, William Shirer, Louis Aragon, Joseph Kessel, Martha Gellhorn, Walter Lippman, Gregor von Rezzori, Augusto Roa Bastos, Xiao Qian, Wolfgang Hildesheimer, ma anche il futuro cancelliere della Repubblica federale Willy Brandt che lavorava per la stampa socialdemocratica scandinava.

La storia di quel vasto gruppo di personalità della cultura e del giornalismo che nel 1946 diede voce a quanto accadeva nell’aula 600 del Palazzo di Giustizia di Norimberga, è ora ricostruita dallo scrittore tedesco Uwe Neumahr a partire dal luogo nel quale tutti, o molti di loro furono ospitati durante i lunghi mesi del processo: la vasta magione dei von Faber-Castell, la celebre dinastia di fabbricanti di matite vendute in tutto il mondo che, sorgendo non lontano dal centro cittadino, fu requisita dagli Alleati per ospitare la stampa internazionale.

Il castello degli scrittori, proposto nella collana degli Specchi di Marsilio a pochi mesi dall’edizione tedesca (traduzione di Silvia Savojni e Giovanna Targia, pp. 302, euro 22), ricostruisce minuziosamente quei giorni, il contesto di quella inedita convivenza e i profili di figure ricche e sfaccettate che si trovarono inoltre a misurarsi con uno degli avvenimenti che ha marcato a fuoco la storia dell’umanità. Non a caso, Neumahr descrive il Press Camp, allestito nella zona di Stein presso il castello dei Faber-Castell, come «un luogo di contrasti» dove, riunendo come forse non è mai più accaduto fino ai giorni nostri «così tanti scrittori di spicco provenienti da ogni nazione», «la letteratura globale ha incontrato la storia del mondo». Un luogo, suggerisce l’autore tedesco, dove «persone rientrate dall’esilio o dall’emigrazione interna si trovarono faccia a faccia con ufficiali di carriera usciti dalla guerra: combattenti della Resistenza, sopravvissuti all’Olocausto e comunisti incontrarono rappresentanti di società mediatiche occidentali; cronisti di prima linea si trovarono insieme a stravaganti reporter divenuti celebrità».

Di lì a pochi anni una tale convivenza sarebbe risultata impossibile, visto che già a Norimberga si andava delineando il mondo che avrebbe fatto seguito, quello che sostituirà l’unità antifascista, perlomeno parziale, della Seconda guerra mondiale, con il nuovo conflitto tra l’Est e l’Ovest. E, del resto, i corrispondenti sovietici e quelli occidentali erano rigidamente separati. «Il freno posto da Mosca, in particolare, era stringente», annota l’autore, aggiungendo come «gli inviati (della stampa dell’Urss) avevano ricevuto direttive rigide su come comportarsi, e correvano il rischio di essere denunciati se le avessero violate».

Ma, al di sopra di tutto, quel che è certo è che il processo di Norimberga cambiò le persone che vi assistettero. E, come nota ancora Uwe Neumahr, «anche lo stile di scrittura dei reporter cambiò». Così, Janet Flanner, storica corrispondente del New Yorker e nota per l’inconfondibile «Flanner touch», basato su deduzioni argute e pungenti, non potendo rendere giustizia dei crimini che venivano esaminati con il sarcasmo, inaugurò un nuovo stile. Mentre, tra gli altri, Erich Kästner spiegò che non riusciva a scrivere «un articolo coerente su questa impensabile, infernale follia» dopo aver visto un documentario sui campi di sterminio. Alla luce di tale prospettiva, conclude Neumahr quanto ai contenuti e al senso ultimo della sua opera, «Il castello degli scrittori è anche un libro sull’assenza di parole e sul modo in cui la letteratura affronta l’indicibile».