Non una di meno, in piazza in tutto il mondo
25 novembre Non più vittime ma resistenti per dire basta al femminicidio
25 novembre Non più vittime ma resistenti per dire basta al femminicidio
«Debout contre les violences faites aux femmes»: In piedi contro le violenze di genere. Con questa consegna, un folto gruppo di associazioni e collettivi femministi, francesi e immigrati, ha sfilato ieri a Parigi. Il loro manifesto ricorda che, in Francia, ogni anno vi sono 86.000 stupri, ma solo l’1,5% viene condannato. Che 216.000 donne sono vittime di violenze coniugali e 122 sono morte nel 2015. Scrivono le femministe: «Viviamo in un paese in cui i discorsi populisti e reazionari aumentano e vogliono far credere che chiudere le frontiere basterebbe a fermare le violenze sulle donne; viviamo in un paese che partecipa a conflitti armati che provocano massacri, violenze sessuali, stupri come arma da guerra, sequestri, tratta, deportazioni e aumento della povertà». Occorre, invece, dare priorità «alle trattative e alla partecipazione delle donne ai processi di pace»: affinché il paese dei diritti dell’uomo «diventi finalmente quello dei diritti della donna».
IL 10 DICEMBRE, per le Nazioni unite è la giornata dei Diritti umani. Fino a quella data, Onu-femme ha lanciato la campagna «Orangez le monde: levez des fonds pour mettre fin à la violence contre les femmes et les filles» («tingete il mondo di arancione: per mettere fine alla violenza contro le donne e le bambine ci vogliono fondi»). Le risorse per la prevenzione e per garantire autonomia alle donne, sono però ancora insufficienti. In Cambogia – registra l’Onu – il 70% delle donne ha un lavoro precario. Oltre 500.000 lavorano nelle fabbriche tessili o di calzature, ad alto tasso di sfruttamento. In Kirghizistan, le violenze sulle donne e le minori e la pratica dei matrimoni forzati dopo un sequestro, sono una triste realtà. In Mali, è tornato in piazza anche il collettivo Halte aux Violence Conjugales (Hvc), coordinato da Ballo Mariko: una rete di donne e uomini che ha esordito con una marcia contro la violenza coniugale, a Bamako: per denunciare come la violenza sulle donne abbia raggiunto «proporzioni inimmaginabili». Donne uccise dai mariti in tutta impunità, a cui spesso giudici, medici e poliziotti chiedono «cos’abbia combinato per farsi ridurre così».
NEL MAGGIO 2011, è entrata in vigore la Convenzione di Instanbul del Consiglio d’Europa, volta a combattere la violenza contro le donne e quella domestica. Uno strumento basato su 4 pilastri: prevenzione, protezione, procedure legali e politiche integrate. Tuttavia – denuncia l’Arci – le disposizioni sono disattese e le politiche nazionali non sono allineate ai dettati della Convenzione. La Rete Euromediterranea dei Diritti Umani – un network di organizzazioni sociali europee, del Nord Africa e del Medioriente, di cui l’Arci fa parte -, segnala «la mancanza di servizi accessibili per le vittime, la larga impunità, la carenza di formazione fra gli operatori di settori importanti – inclusa la polizia e il sistema giudiziario».
I DATI RESTANO ALLARMANTI: in Francia, una donna muore per mano di suoi famigliari ogni tre giorni. In Marocco, sei donne su dieci sono vittime di violenza domestica, ma solo il 3% di loro sporge denuncia. A Cipro, una su cinque ha subito violenza sessuale o fisica. In Tunisia, il 78% delle donne sono state molestate o aggredite in un luogo pubblico. E in Turchia, oltre 1.400 femminicidi hanno avuto luogo negli ultimi 5 anni. In Algeria, le donne hanno manifestato ricordando l’assassinio di Amira, bruciata viva quest’estate da un uomo che l’aveva molestata per strada, nella cittadina di El Khroub, al nord di Algeri. In Algeria, tra il 2014 e il 2015, le denunce per violenze di genere sono aumentate del 27%. Dati che fotografano solo in parte la realtà, perché molte donne non denunciano, oppure fanno marcia indietro per paura di rappresaglia.
«La violenza contro le donne è l’Olocausto del XXI secolo – arriva a dire la spagnola Ana Bella – perché nel mondo 1.200 milioni di donne sono maltrattate per il solo fatto di essere donne, due volte la popolazione d’Europa: indipendentemente dalla religione o dal colore della pelle, e a volte persino dal livello economico o culturale». Quando, dopo 11 anni di maltrattamenti famigliari, ha deciso di fuggire dal marito insieme ai suoi 4 figli, Ana era solo una vittima. Poi ha deciso di reagire e, nel 2002, ha creato una fondazione che porta il suo nome. Oggi, aiuta ogni anno circa 1.400 donne, dalla Spagna all’America latina. In Spagna, solo quest’anno 39 donne sono state ammazzate da mariti o ex: «una donna aiuta l’altra – dice – se rompi il silenzio e resisti, c’è un’alternativa a quella di essere uccisa, essere felice».
L’ASSOCIAZIONE DI ANA è presente anche in Messico, dove una donna su due subisce maltrattamenti, e dove in un solo anno sono stati commessi 2.289 femminicidi. Le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto allo stato messicano l’approvazione della Legge contro la tortura, ricordando l’aumento allarmante delle torture sessuali nei confronti di donne «indocumentadas». Un tema presente, ieri anche negli Stati uniti. In India, si è manifestato contro «le torture e gli stupri perpetrati da esercito e paramilitari come arma di repressione nelle zone rurali». L’Mfpr lo porterà anche nella manifestazione di oggi a Roma.
Ieri, l’intera America latina è scesa in piazza con la consegna «Non una di meno» e «Se toccano una, toccano tutte». Molte recavano cartelli col disegno di tre farfalle: «le mariposas», come venivano chiamate nella clandestinità le 3 sorelle Mirabal, uccise dal dittatore Trujillo nella Repubblica dominicana nel 1960 e a cui l’Onu ha dedicato la giornata del 25, il 17 dicembre del 1999. Un simbolo di resistenza. E, infatti, in molte hanno portato il ritratto di Milagro Sala, la deputata indigena prigioniera in Argentina nonostante l’appello dell’Onu, e della leader mapuche cilena Francisca Linconao di cui anche Amnesty international chiede la liberazione.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento