Posto che ormai lo sappiamo, che lo stupro ha più a che fare con il potere e l’affermazione di una identità maschile «dominante» che con il desiderio e il sesso, forse prima di evocare la censura della pornografia, come hanno fatto in questi giorni la ministra Roccella e vari conservatori italiani, ci sono alcuni elementi su cui potremmo ragionare.

Lo stupro è un dato culturale che naturalizziamo attraverso la storia (ci insegnano il ratto delle Sabine quando andiamo alle elementari), la mitologia greca – che è ispirazione di buona parte dell’arte, e che ritroviamo nella letteratura, nel cinema (non solo quello porno) e anche in alcune canzoni.

Virginie Despentes, provocatoriamente, sostiene che tutta la civiltà occidentale è fondata sullo stupro. Si tratta senza dubbio di un’iperbole ma con un fondo consistente di realtà.

Cercare di interpretare la rappresentazione della sessualità e del rapporto tra i generi prescindendo da questo dato è impossibile – o disonesto. Chi lavora alla proliferazione e diffusione di immaginari sessuali diversi da questo sa bene che sta solo rosicchiando le fondamenta di un sistema millenario.

D’altra parte la pornografia è un dispositivo intrinsecamente pedagogico, perché se il discorso sul sesso è osceno, fuori dalla scena, la ricerca della «verità sul sesso» si riversa in questo formato ibrido, che non è del tutto fiction e non è documentario, ma in quanto prodotto culturale è sempre intriso di ideologia, non è mai neutrale.

Negli anni ’50 negli Stati Uniti si producevano video in contesto medico per insegnare alle coppie come fare l’amore e riprodursi – ovviamente anche quel tipo di prodotto nascondeva una certa concezione del corpo, della relazione e dell’atto.

Solo all’inizio degli anni ’80 sono le femministe a rivelare il nesso tra sesso e politica, con il famoso contestatissimo convegno di Barnard del 1982, che apre alle cosiddette «Guerre femministe del sesso». Un conflitto che ha visto contrapporsi alle attiviste che volevano riappropriarsi del piacere sessuale anche nella sfera pubblica (chiamate pro-sex o sex positive) i gruppi censori anti-porno, che letteralmente dicevano «la pornografia è la teoria e lo stupro la pratica».

Fin da allora esiste una frattura nel movimento femminista. C’è chi continua a spingere, con ogni strumento mediatico necessario, per un aggiornamento, una liberazione da quell’ars amatoria che è ancora fondata sulla violenza, sulla prescrizione di una messa in scena rassicurante perché uguale da secoli a se stessa, quel modello che ci divide arbitrariamente in prede e predatori, quando potrebbe essere tutto molto più fluido e non richiedere nessun tributo di sangue.

Contro il porno che insegna la sopraffazione (ma che è solo un tassello della pedagogia della violenza che struttura le relazioni tra i sessi) non potrà mai funzionare la censura. Piuttosto, si può dare visibilità e riconoscimento a tutto ciò che c’è di diverso – a quanto può essere sexy il consenso, al fascino della negoziazione, all’estremo dove non c’è nessuna da forzare o che debba fingere che non vuole.

Sarà banale ma già dare la parola al sesso, riconoscere la necessità di farlo uscire dall’oscurità, dalla vergogna e dallo schifo – attraverso la pratica dell’educazione sessuale a scuola, per cominciare – ha tanto più senso che provare a censurare un mercato che, se nella sua forma più becera muove miliardi, nella sua forma più politicamente avanzata può contribuire alla costruzione di un futuro post-patriarcale.

* in arte Slavina, pornoattivista e scrittrice