No wave, il fiore malato di NYC
Storie Un genere musicale che ha travolto la città a fine anni ’70. Intervista a Lydia Lunch. Un cocktail di funk, punk, free jazz e terrorismo sonoro. Un circuito di artisti e band limitato e circoscritto che però ha lasciato una forte eredità e influenzato intere generazioni. Ripensando a James Chance
Storie Un genere musicale che ha travolto la città a fine anni ’70. Intervista a Lydia Lunch. Un cocktail di funk, punk, free jazz e terrorismo sonoro. Un circuito di artisti e band limitato e circoscritto che però ha lasciato una forte eredità e influenzato intere generazioni. Ripensando a James Chance
La scomparsa lo scorso 18 giugno di James Chance, sassofonista, leader e autore dei Contortions, tra le band più innovative nella New York di fine anni Settanta, ha riportato all’onore delle cronache (più sotterranee) la vicenda stupefacente della scena no wave, che visse il tempo di una fiammata nella Grande Mela di quegli anni per poi deflagrare in mille altri progetti, lasciando influenze, semi (malefici), retaggi sonori, artistici e culturali. Singolare perché, alla fine, il circuito di artisti e band riconducibili alla «scena» era molto limitato e circoscritto e si perdeva facilmente nel marasma di quegli anni Settanta in cui New York era una città pericolosa, violenta, in bancarotta, in totale disfacimento logistico e umano.
La polizia, accoglieva i passeggeri in arrivo all’aeroporto JFK, con un volantino con la scritta «Benvenuti nella città della paura», e un vademecum in cui si consigliava di evitare luoghi come Manhattan (per non parlare di Bronx o Harlem), l’eroina scorreva a fiumi, tanto quanto la prostituzione era diffusa per procurarsela (maschile e femminile), con condizioni di vita al limite della sopravvivenza. Ci vollero anni per risistemare il tutto, non di rado utilizzando metodi altrettanto violenti e discutibili. John Lurie, che alla scena era tangente, aggiunge un ulteriore inquietante tassello: «Le cose iniziarono a diventare cupe. La gente incominciò a morire. Molti per quello che veniva chiamato il “cancro dei gay”. L’urgenza e l’impunità scomparvero. Le cose incominciarono improvvisamente a essere pericolose». Il giornalista Edmund White del New York Times aggiunge un’ulteriore pennellata: «Il mondo culturale – almeno quello che contava – era molto più piccolo allora. I pittori conoscevano i musicisti che conoscevano gli scrittori ed erano tutti facilmente accessibili».
UN CALDERONE
In questo ribollente calderone nasce un fiore ancora più malato di quanto fosse possibile prevedere. Il punk ha già messo abbondantemente le radici, dipanandosi tra le più svariate influenze, quello adrenalinico dei Ramones, quello iconoclasta dei Dead Boys, la parte «intellettuale» di Television e Talking Heads, la declinazione mainstream dei Blondie, le contaminazioni latin soul blues dei Mink De Ville. Ma i nuovi ragazzi e (tante) ragazze che andranno a rappresentare l’ossatura della no wave sono già avanti, disprezzano quello che è per loro già una sorta di tradizionalismo, lontano da innovazione e reale sovversione. A fare da maestri i Suicide possono andare bene, arrivano da un’altra dimensione, da anni impegnati a terrorizzare pubblico e avventori di locali con uno show e una musica che vanno oltre ogni immaginazione, perfetta colonna sonora dell’apocalisse sociale della città ai tempi. Ma ci sono anche il Lou Reed provocatoriamente rumorista del doppio Metal Music Machine, le varie forme di sperimentazione, tra anni Sessanta e Settanta, prima tra tutte l’esperienza di Captain Beefheart, l’esasperazione elettrica confluita in forme di free jazz degli Stooges di Fun House, ampie dosi del jazz più avanguardista dell’epoca, da Ornette Coleman a Sun Ra, la sempre sottovalutata avventura sonora di Yoko Ono. Il tutto frullato nell’iconoclastia adolescenziale di giovani incazzati, disperati, sperduti nell’inferno quotidiano di una città spietata da cui urlare la disperazione. Anche Patti Smith si muoveva nelle stesse strade, ma pur se su ben altre coordinate sonore e artistiche, fotografò bene quei momenti: «Per me, essere affamata e senza un soldo ma essere libera di vivere in un casino e non dovermi preoccupare se non facevo il bagno per una settimana, era sufficiente». A fianco e insieme a tutto ciò si sviluppa un’avanguardia artistica che si sublima nel Colab (Collaborative Projetcs Inc.) che organizza mostre (in particolare il Times Square Show, ai tempi luogo pericoloso, di spaccio e delinquenza) con giovani artisti, destinati a diventare celebrità, come Jenny Holzer, Nan Goldin, Keith Haring, Kenny Scharf, Jean-Michel Basquiat e Kiki Smith. Anni in cui gli affitti erano bassi, aspiranti scrittori, cantanti, ballerini potevano permettersi di vivere a Manhattan, prima che tutti i marginali venissero ulteriormente emarginati ed espulsi verso altre zone, mentre incominciava la selvaggia gentrificazione.
Uno degli aspetti più particolari è che questa «scena», diventata così influente e iconica, era in realtà composta da una manciata di musicisti (o pseudo tali) animati da uno spirito «terrorista», spietato, violento e antagonista a qualunque manifestazione fosse pur se lontanamente «omologata». Non è improbabile che se Brian Eno non fosse arrivato in città per produrre il secondo album dei Talking Heads, More Songs about Buildings and Food e non fosse stato così curioso e attento a quello che lo circondava, questa esplosione di rabbia, ritmi e intuizioni, si sarebbe persa nel marasma di tendenze, dischi, droghe, concerti oscuri.
NESSUN LEGAME
Il mondo no wave rigettava il legame che il punk aveva con il rock’n’roll tradizionale, cercava ispirazione nel rumorismo e nella sperimentazione. Come dichiarò Lydia Lunch: «Odiavo quasi tutto il punk rock. La no wave non aveva niente a che fare con il punk. Chi aveva bisogno degli accordi, di tutte queste progressioni che erano state usate fino alla morte nel rock? Per suonare la chitarra slide usavo un coltello, una bottiglia di birra… il bicchiere dava il suono migliore. Ancora oggi non conosco un solo accordo sulla chitarra».
Agli inizi del 1978 l’Artists Space di Michael Zwack e Roberto Longo, con sede a SoHo, Manhattan, organizzò un festival con alcuni esponenti di questa magmatica e feroce nuova scena musicale. Suonarono i Gynecologists, i Communists, i Theoretical Girls e Daily Life di Glenn Branca, Terminal e Tone Death.
Jim Sclavunos militò alla batteria nei Gynecologists, prima di passare ai Teenage Jesus and the Jerks e poi agli 8 Eyed Spy con Lydia Lunch e infine ai Bad Seeds di Nick Cave: «Penso che gli obiettivi e i metodi di ogni band fossero piuttosto unici. Tuttavia, un aspetto comune a tutti era la loro asprezza uditiva: strumentazione aspra e stridente, dissonanza e atonalità. Tutte le band hanno avuto una presenza sul palco un po’ straniante. Il pubblico era soggetto a esplosioni casuali di violenza, fredda indifferenza o sdegnosa ostilità, a volte tutto quanto insieme». Fu negli ultimi giorni di questa spontanea esplosione creativa, durante le esibizioni di Teenage Jesus and the Jerks, DNA, James Chance and the Contortions e Mars che Brian Eno approdò nel locale, rimanendone impressionato e affascinato, tanto da approntare, con urgenza, una session di registrazioni per salvare l’attimo e documentare in tempo reale quanto stava accadendo. Ne beneficiarono i quattro nomi che aveva visto in azione, portati velocemente in studio, registrando praticamente in diretta, più in funzione di una testimonianza che del contenuto artistico in sé. Fu una mossa azzeccata perché la compilation No New York, pubblicata pochi mesi dopo, restituisce in pieno la violenza e l’asprezza di quei suoni e di quell’attitudine.
James Chance, accompagnato dai Contortions, è probabilmente il nome più maturo e compiuto del lotto, con un’idea artistica già più o meno precisa, quella di partire, rispettosamente, dal funk (Chance era un fan acceso di James Brown) per decostruirlo in chiave disarmonica, provocatoria, dissonante, punk. Ma il groove di base rispetta i canoni del genere. James Chance aveva un recente passato con i Death, suonando cover di Velvet Underground e Stooges, poi con i Flaming Youth e con la prima formazione dei Teenage Jesus and the Jerks a fianco della giovanissima Lydia Lunch. James Chance proseguirà una lunga carriera tra alti e bassi, continuando a mantenere un solido legame con il sound delle origini. I componenti originali della band fonderanno esperienze di rilievo nella scena più underground, dai Raybeats ai Bush Tetras mentre la tastierista Adele Bertei entrerà nel giro importante della musica pop, collaborando con Blondie, Tears for Fears, Culture Club, Pointer Sisters.
Amica fraterna di James Chance è stata Lydia Lunch che ha condiviso con lui il primo appartamento, appena arrivata a New York da Rochester. Cambierà il cognome da Koch a Lunch a causa del soprannome datole da un altro grande protagonista della vita underground dei tempi, Willy DeVille. Lydia lavorava in un ristorante e passava segretamente a Willy e ad altri esponenti del suo giro un po’ di cibo per il loro povero «lunch», pranzo. Con i Teenage Jesus and the Jerks fa il suo esordio nella musica, all’insegna di un sound minimale, durissimo, cacofonico, a cui aggiunge una vocalità estrema, con urla strazianti. La sua carriera è compulsiva, tra mille progetti artistici, dal cinema off, alla poesia, alla sceneggiatura, a numerosissime incarnazioni sonore, soliste, spoken word, collaborazioni di ogni tipo. Sempre all’insegna di musiche dure, oscure, malate, estreme. Il suo Queen of Siam, il primo album solista del 1979, e il singolo con i Sonic Youth, Death Valley ’69 del 1986 sono tra i vertici della sua produzione. È tuttora in fervida e bulimica attività, sempre all’insegna di livelli qualitativi altissimi.
Una vita brevissima quella dei Mars, già attivi nel 1975, che totalizzeranno una manciata di concerti e non più di mezzora di registrazioni, finite in un paio di 45 giri e varie raccolte. Rumoristi, figli diretti dei Velvet Underground, minimali ma con strutture definite e meno improvvisate di quanto possano sembrare. Dopo lo scioglimento il bassista Mark Cunnigham fu protagonista, insieme ad Arto Lindsay e Ikue Mori dei DNA e ad altri due membri della band, della singolare «no wave opera» John Gavanti basata sul Don Giovanni di Mozart e definita come l’album più «inascoltabile di tutti i tempi», tra dissonanze acide e asperrime. E infine i DNA di Arto Lindsay, un solo singolo e un ep all’attivo ma una visione artistica e un’influenza notevole su tantissimi progetti futuri. Anche in questo caso siamo nel consueto campo abrasivo, sperimentale, crudo e avanguardistico, con un retrogusto blues stravolto alla Captain Beefheart. Arto Lindsay sarà partecipe di tantissimi progetti, dai Lounge Lizards di John Lurie e i Golden Palominos a lavori con John Zorn, Laurie Anderson, Bill Frisell, David Byrne, Marc Ribot, Ryiuchi Sakamoto, alla produzione (inaspettata) di prestigiosi artisti brasiliani, da Gal Costa a Caetano Veloso.
La batterista Ikue Mori proseguirà l’attività nel mondo più sperimentale, arrivando a notevoli riconoscimenti e a collaborazioni prestigiose (da John Zorn a Kim Gordon e Thurston Moore dei Sonic Youth, Mike Patton e altri).
CARRIERE BREVI
Carriere brevi e fulminanti, poi continuate sempre su coordinate simili, sfidando ogni modalità commerciale, restando orgogliosamente «dall’altra parte», sempre e comunque antagonisti. Il loro esempio ha influenzato una lunga serie di nomi, a loro volta diventati riferimenti per le generazioni successive, a partire dai Sonic Youth con cui molti esponenti della no wave hanno ripetutamente collaborato.
I Pussy Galore del grande Jon Spencer (che troverà il successo successivo con Boss Hog e la sua Blues Explosion) attingeranno a piene mani dalla rabbia e dal funk impazzito dei Contortions mentre anche gli spietati Butthole Surfers guarderanno con molta attenzione alle band newyorkesi. Lo Steve Albini dei furiosi esordi con Big Black e Rapeman è un altro nome che ha sicuramente apprezzato quell’esperienza, a cui non è estraneo l’approccio iconoclasta, aggressivo e disperato dei Birthday Party di Nick Cave. Poco conosciuti i Circus Mort, se non perché daranno vita alla ben più nota carriera degli Swans con sempre Michael Gira alla guida. Entrambi i nomi non sono alieni alla lezione della no wave. Non dimenticando quanti gruppi hardcore punk abbiano più o meno direttamente introitato quel gusto, sfacciato e incurante delle regole per l’estremo, da alcune band dell’inglese Crass Records agli Hüsker Dü, fino ai, perché no?, Nirvana di Bleach.
«Quando nel 1980 arrivai a New York, andavo a downtown a vedere le band di no wave. Era qualcosa di espressionista e anche nichilista. Il punk rock era parodistico dicendo, ’Distruggeremo il rock’. La no wave era più del tipo, ’No, stiamo davvero distruggendo il rock’. Era molto dissonante. Ho pensato semplicemente, ’Wow, è davvero libera’. Potrei farlo pure io» (Kim Gordon).
PAROLA DI LYDIA LUNCH
Come detto, tra i protagonisti principali della scena no wave spiccava e spicca il nome di Lydia Lunch, l’abbiamo sentita.
Credo che tu sia tra le rare artiste che hanno sempre suonato ciò che amavano, senza cercare altre strade più comode. Quanto ti ha dato e quanto ti ha tolto questa scelta?
Non c’era e non c’è altro modo. Che scelta dovrei avere? Sono ostinatamente indipendente, troppo prolifica ed essendo una schizofrenica musicale non posso pensare di fare diversamente.
Quando hai iniziato a cantare e suonare, avresti mai immaginato di continuare sul palco fino ad oggi?
Ho proclamato a 22 anni che sarei stata la donna vivente più anziana rabbiosa. Profezia? Chiedimelo tra 100 anni.
Hai mai avuto rimpianti nella tua carriera? Ci sono opportunità che ritieni di aver perso e di cui ti dispiace?
Assolutamente no!
Tra i tuoi numerosi progetti artistici, a quale sei più affezionata?
Sono tutti serviti proprio allo scopo che mi ero prefissata.
Quali sono i personaggi che più ti hanno segnato nei numerosi incontri della tua vita, artistica e non?
Lo scrittore americano Hubert Selby Jr. Uno scrittore di romanzi brillanti, ancora non abbastanza considerati nemmeno ora che è morto (Ultima fermata a Brooklyn, La stanza, Requiem per un sogno ecc., ndr). Ero entusiasta quando ha accettato di scrivere l’introduzione al mio libro Paradoxia: A Predator’s Diary.
C’è molta apprensione in giro per ciò che accade oggi nel mondo. In tanti anni poco è cambiato e forse in peggio. Come ti collochi umanamente e come artista di fronte alle continue ingiustizie sociali, sempre presenti ovunque?
Continuo a inveire contro i cleptocrati genocidi, omicidi e succhiacazzi e non smetterò mai di lamentarmi della schiavitù, delle guerre infinite, del cambiamento climatico, dell’inquinamento o delle stronzate politiche. Mai.
Nella tua vita e nella tua vita artistica hai sempre amato superare i limiti. Hai altro da oltrepassare davanti a te?
Continuando a esistere mentre il mondo si dissolve.
Siamo stati davvero colpiti dalla tua dichiarazione «abbiamo dieci dita, loro hanno due occhi» riguardo alla violenza maschile.
Le donne una volta erano guerriere. Dobbiamo ricordarci come difenderci fisicamente, psichicamente e spiritualmente.
Il tuo/tua cantante preferito/a?
Dipende dal mio umore. Billie Holiday, Tom Waits, Townes Van Zandt.
Compositore preferito?
Stockhausen.
Il tuo eroe/eroina nella musica e non solo?
Madalyn Murray O’Hair, leader del movimento ateo americano: «La religione ha causato più miseria a tutta l’umanità in ogni fase della storia umana di qualsiasi altra singola idea».
Il miglior album di tutti i tempi?
Il primo degli Stooges.
Il miglior live?
I Birthday Party con Rowland S. Howard, prima che Nick Cave diventasse un predicatore cristiano di ballate morbose.
La tua canzone per un party?
Non vado ai party.
Una canzone che vorresti suonasse per il tuo funerale?
Cosa ti fa pensare che ne avrò uno?
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