«No al governo M5S». Era Renzi al tramonto ma la linea la detta lui
Vado e torno Processo al leader (contumace), aperti a un esecutivo istituzionale Martina coordinatore, tregua fra i big fino all’assemblea di aprile. Renziani muti, il reggente promette collegialità Resta il nodo del congresso e del prossimo segretario
Vado e torno Processo al leader (contumace), aperti a un esecutivo istituzionale Martina coordinatore, tregua fra i big fino all’assemblea di aprile. Renziani muti, il reggente promette collegialità Resta il nodo del congresso e del prossimo segretario
Doveva essere il giorno del processo a Renzi e invece alla fine il dibattito della direzione Pd si sgonfia. I toni contro l’ex segretario – che non si presenta ma rilascia interviste e scrive enews in cui promette di continuare «la lotta» – alla fine sono sorvegliati: un po’ perché persino le attuali minoranze sono state renziane nel corso di questi anni; un po’ perché la batosta e lo sbando sono tali da consigliare di evitare scontri interni. Paradossalmente è Renzi a fare il processo ai suoi, parlando di «piaggeria» trasformata in «viltà», attaccando persino Gentiloni per aver fatto campagna elettorale per sé. Se ne lamenta Andrea Orlando: «Non credo che in questo partito si possa fare a meno di quel che ha rappresentato Renzi in questi anni», «ma non possiamo neanche permettere che, mentre qualcuno si carica il peso di questa transizione, qualcun altro si defila e spara sul quartiere generale secondo una strategia inaugurata dal presidente Mao Zedong».
L’ERA POST RENZI inizia ufficialmente senza strappi. Alla fine la direzione non si divide: vota la linea dettata dall’ormai ex segretario già il 5 marzo, quella dell’«opposizione»: tutti sì, con la sola astensione dei sette di Michele Emiliano.
MA È UNA LINEA per l’immediato e forse destinata a revisione. Per ora lo dice solo Gianni Cuperlo: va valutata l’eventuale proposta del Colle di «un governo di scopo che si rivolga al complesso delle forze e degli schieramenti, con con un programma limitato e poi un ritorno governato alle urne». C’è anche la possibilità di un governo istituzionale guidato da uno dei presidenti delle camere. Renzi ai suoi ha già spiegato che il sì del Pd è in ogni caso subordinato al sì dei 5 stelle e della Lega. Ma non è detto che continui a essere il regista del partito fino a quel momento.
MAURIZIO MARTINA resta al suo posto di vicesegretario, di fatto nei panni di un reggente, e va bene a tutti, compreso alla minoranza di Orlando che all’inizio chiedeva l’azzeramento del gruppo dirigente. Alla fine basta che Martina pronunci qualche parola magica, «unità», «collegialità», «umilità». «Collegialità» però è più uno stile che un impegno: i renziani si oppongono a qualsiasi cosa assomigli a un «caminetto» e cioè a una sconfessione piena dello stile Renzi.
IL VICESEGRETARIO svolgerà, dice il documento finale, «le funzioni di segretario fino all’assemblea nazionale» che sarà convocata i primi di aprile. Il partito è invitato a «un impegno straordinario» per «promuovere a ogni livello il più ampio confronto». Parole generiche: sarà l’assemblea a decidere se si aprirà un congresso formale o se si sceglierà subito un nuovo segretario. Lo stesso Martina, oppure il ministro Graziano Delrio. Che ieri ha usato parole già da leader: «Non occorre un nuovo capo ma una nuova direzione».
PER IL VERO CONGRESSO, quello con le primarie e i gazebo, non ha fretta nessuno: potrebbe arrivare nel 2019 alla vigilia delle europee. O nel 2021, alla fine del mandato che fu di Renzi. Prendere tempo è anche una necessità per gli altri due papabili Nicola Zingaretti e Carlo Calenda, entrambi presenti ieri. Il primo è stato appena rieletto alla guida del Lazio ma non ha una maggioranza, il secondo è un neotesserato ed ha bisogno di un minimo di stage nel partito.
LA DISCUSSIONE IN DIREZIONE non è «finalmente libera» come richiesto dalle minoranze tanto libera non è: molte le rinunce delle 58 richieste di intervento. E la situazione in cui versa il Pd dopo la sberla elettorale e in una scomodissima posizione – dispone dei numeri per far partire un governo ma si dichiara indisponibile deludendo le aspettative del Colle – è così delicata che i big rimandano lo scontro diretto.
Resta aperta la partita delle presidenze e delle vicepresidenze dei gruppi di camera e senato, che saranno spartite con logica cencelliana fra un’ex maggioranza renziana ancora consistente e il nuovo fronte antirenziano. In campo ci sono Ettore Rosato e Lorenzo Guerini per la Camera e Teresa Bellanova e Andrea Marcucci per il Senato
Per questo sono tutti d’accordo la tregua proposta da Martina: la sconfitta è «netta», dice, ma non vanno cercate «scorciatoie o capri espiatori», tradotto non va crocefisso Renzi.
I RENZIANI non parlano. Tranne Dario Nardella: « No a processi salvifici contro il capo, facciamo analisi vera e profonda», dice. Il sindaco di Firenze deve gestire un’altra eredità renziana, non minore di quelle lasciate al Nazareno: se il Pd non riesce a costruire un’alleanza alle amministrative di primavera, in Toscana il centrosinistra perderà anche le ultime città che governa: Firenze resterà un’eccezione.
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