C’è ancora un preconcetto rispetto a quelle scritture che una volta sarebbero state definite «selvagge». Tanto che Feltrinelli questi narratori della vita, molto spesso autobiografici, tra i quali il Padre padrone di Gavino Ledda, negli anni Settanta li aveva raggruppati in una collana, quella dei «Franchi narratori», dove appunto la sincerità e il racconto diretto, senza mediazioni, erano la norma. Il sospetto, allora come oggi, soprattutto di quella parte di critica letteraria sopravvissuta, anche rispetto all’autobiografismo, è che la letteratura debba essere altro, visione, allegoria, finzione, invenzione, oppure una esperienza vissuta anche nel linguaggio, dentro la forma, appunto, e non come in questi casi solo testimonianza di un vissuto.

Il libro di Janek Gorczyca, Storia di mia vita (Sellerio, pp. 152, euro 15) in realtà è un diario intimo per frammenti, un racconto crudo dei fatti anche un po’ meccanico, da deposizione giudiziaria, sicuramente un interessante reperto sociologico di una esperienza umana «dal di dentro» che conserva la carnalità di un vissuto allo stato brado, ma scritto in maniera molto diversa da quella «lingua che travolge» e «italiano senza precedenti» che promette nella quarta l’editore.

LA LINGUA CHE USA Gorczyca, polacco senzatetto che vive a Roma da trent’anni, è un italiano basico, essenziale, fatto di un parlato ritmico ed espressivo, la lingua che disperatamente ha appreso dalla strada e con la quale riesce a sopravvivere, di sobria e nuda umanità. È la lingua concreta che parla e scrive, senza mai piangersi addosso, con un vitalismo esemplare, in un paese straniero spesso ostile, quella con la quale racconta la sua vita ai margini, l’occupazione della Torre (Villa Farinacci), dove vive con una comunità provvisoria di sbandati, il lavoro di fabbro, il suo amore per Marta, la malattia di lei, il cane Aron, quando si dà fuoco in testa e finisce al reparto grandi ustionati, il rapporto costante e autodistruttivo con l’alcol.

Viene da pensare, leggendo questo libro, il quale comunque ha una sua indubbia forza e autenticità, è che la drammaticità non basta solo enunciarla, dire che esiste, ma ha bisogno di una forma che la esprima in tutta la sua potenza, una forma espressiva capace di trasformare il reperto memoriale in scrittura, anche se l’intento dell’autore, sicuramente riuscito, è soprattutto civile, testimoniale, quello di dare corpo e voce a una dolorosa condizione di apnea esistenziale.

DI TUTT’ALTRA TENSIONE il malinconico memoir di formazione di Crocifisso Dentello, Scuola di solitudine (La nave di Teseo, pp. 170, euro 17) scritto con una lingua nitida, affilata, e sospeso tra violenza e tenerezza, che mescola abilmente ambienti sociali e commedia umana, raccontando le relazioni complesse di un mondo adolescenziale spesso sommerso.

Tutto comincia quando l’autore incontra nella hall di un hotel dopo la presentazione del suo Tuoamore (La nave di Teseo, 2022) Walter, compagno di scuola delle medie che apre uno squarcio di memoria sui suoi travagliati anni giovanili, quando l’amico ritrovato gli confessa fallimenti lavorativi e affettivi. Libro gemello de Il caso Eddy Belleguelle di Édouard Louis, anche l’io narrante e autore di questo racconto di formazione, scritto con «ossessione autobiografica», viene da una famiglia working class siciliana trapiantata in Brianza e vuole fare lo scrittore, osteggiato dal brutale padre muratore, tornato dal cantiere con la schiena rotta, che «sputa le parole come fossero semi asprigni» quando scopre la sua omosessualità. «Viviamo come i ratti» scrive dello stabile dove abita, «in un buco. Mica come quegli stronzi pieni di soldi che hanno appartamenti grandi come palestre».

La vita dell’adolescente Dentello, vissuta e raccontata senza tregua, è stretta tra inaudite sofferenze domestiche e vessazioni negli ambienti scolastici, dove subisce gli attacchi dei compagni, in particolare dal Galbusera, con mite rassegnazione, senza difendersi, in una straziante solitudine, quando si sente «la vittima reiterata di uno stupro». L’unica luce la madre Melina, «baricentro assoluto» della sua vita, e poi i libri, la letteratura, rifugio in un mondo senza cuore.

FINCHÉ NELLA SUA VITA non arriva Walter, che passa interi pomeriggi a casa dell’amico per sfuggire alla violenza che vive in famiglia, che si mostra fedele e protettivo. Fino allo spiazzante svelamento finale, che getterà una luce diversa sul loro rapporto ambiguo.

Uno scrittore, un vero scrittore come Crocifisso Dentello, non racconta solo la sua storia, ma quella di tutti i molti che universalmente e a diverse latitudini hanno vissuto la sua.