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Nell’acqua: ogni migrante è Keats

Nell’acqua: ogni migrante è KeatsDoris Salcedo (sotto), Palimpsesto, 2016-’17

Al Palacio de Cristal, «Palimpsesto» della colombiana Doris Salcedo Su un tappeto granulare grigio, i nomi delle vittime del Mediterraneo, fatti d’acqua, compaiono e scompaiono

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 3 dicembre 2017

Come ognun sa, John Keats e Percy Bysshe Shelley sono sepolti a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, in una valletta di dolce verdezza al Cimitero Acattolico di Roma. Vicini morirono, anche: men che trentenni, tra il febbraio del 1821 e il luglio del 1822. Il primo a Roma, di tisi; il secondo al largo di Portovenere, nel naufragio della goletta Ariel. Le rispettive lapidi paiono dialogare fra loro. Quella di Shelley, memore del naviglio fatale, riporta i versi celebri della Tempesta di Shakespeare – «Nothing of him that doth fade, / But doth suffer a sea change, / Into something rich and strange» –, ma sul suo destino pare riflettere, prima di poterlo conoscere, l’epitaffio dettato per sé dall’altro poeta, Keats: «Here lies One Whose Name was writ in Water». La sua lapide è a perpendicolo sull’erba, mentre orizzontale vi si stende quella di Shelley.

A queste parole fa pensare la magnifica installazione di Doris Salcedo, Palimpsesto, al Palacio de Cristal del Museo Reina Sofía, nel Parque del Retiro a Madrid (fino al 1 aprile 2018). Il nome «scritto sull’acqua» è una metafora, per Keats, per dire che sulla sua lapide non c’è scritto alcun nome. Mentre di nomi, appunto, consiste l’opera dell’artista colombiana: nomi non scritti sull’acqua, e dunque destinati subito a svanire, ma (come pure si potrebbe tradurre la frase dettata dal poeta) con l’acqua. Alla lettera. Quando mi avvicino alla struttura di vetro e metallo, incastonata fra i cipressi calvi del parco e il laghetto artificiale, il Palazzo di Cristallo sembra vuoto.

Ma quando abbasso lo sguardo ai miei piedi mi accorgo che su un tappeto granulare grigio, steso uniformemente sull’intera superficie, pian piano si vanno addensando macchie di umidità che, dopo qualche minuto, diventano lettere davvero fatte d’acqua; e queste lettere compongono dei nomi di persona. Persone morte in mare, nel Mediterraneo, nel tentativo di salvare la propria vita dalla guerra e dalla fame. Passa qualche altro minuto, l’acqua pare riassorbita dal «terreno», poi lentamente si formano altri nomi. Gli uni si sovrappongono a quelli che li hanno appena preceduti.

Tutto qui. La potenza di una metafora si misura, spesso, dall’economia di mezzi impiegati per realizzarla. (Economia apparente: perché ci sono voluti quattro anni per mettere a punto il complesso sistema d’ingegneria idraulica che rende possibile questo affioramento silenzioso, e poi l’inabissarsi, altrettanto graduale e impercettibile, delle gocce d’acqua.) Continuo a camminare sull’opera, attento a non calpestare i nomi visibili ma anche quelli temporaneamente cancellati (che lasciano, ad aguzzare gli occhi, un’impronta cava sul grigio leggermente più scuro). Alzo gli occhi da terra, ma non c’è altro da vedere. Solo gli altri visitatori che perimetrano la superficie ai loro piedi (c’è chi si tiene a debita distanza dalle scritte, altri si azzardano a scavalcarle). E gli alberi fuori dai vetri, e l’acqua del laghetto (l’aspetto site-specific è però soprattutto nel contenitore: edificato nel 1887 per l’Esposizione delle Isole Filippine, dunque per celebrare il colonialismo spagnolo, come il Crystal Palace di Londra cui s’ispirava il Palacio de Cristal doveva essere un’«architettura a orologeria», per dirla con Marco Biraghi, e invece sopravvisse alla sua occasione; mentre l’originale andò distrutto nel 1936, il d’après madrileno è giunto sino a oggi: in una dialettica fra permanenza e dissoluzione che, come mostra Salcedo, non è dissimile dai meccanismi della memoria e del riconoscimento).

La fragilità materiale del lavoro è il primo aspetto su cui riflettere. Giustamente Manuel Borja-Villel, il direttore del Reina Sofía, definisce Palimpsesto un «monumento». Retoricamente opposto alle forme classiche (anche quelle novecentesche) della monumentalità, certo: ma proprio per questo capace di riattivare il cortocircuito attivo-passivo insito nell’etimo: ricorda e, così facendo, ci ricorda. Come dice di altri artisti – da Kiefer a Boltanski ai Kabakov – Aleida Assmann in Ricordare (il Mulino 2002), l’«arte della memoria» ha tanta più forza quanto più si presenta fragile, intermittente, semicancellata: se il monumento classico s’impone allo spettatore col suo affermarsi verticale, qui la postura orizzontale (come per Shelley all’Acattolico) fa piuttosto pensare alla delicatezza, in tutti i sensi, dell’esporsi. In Palimpsesto, come dice il titolo, l’apparire della memoria ha tanto peso quanto il suo sparire. Ci ricorda tanto il silenzio acquiescente con cui assistiamo alle tragedie del nostro tempo quanto le troppe parole sbagliate, retoriche e vacue, con cui ci illudiamo di prenderne atto. Come scrisse nel 1969 (un anno prima di porre fine ai suoi giorni, procurandosi la morte per acqua nella Senna) Paul Celan, «la poésie ne s’impose plus, elle s’expose». Celan è un riferimento costante, per Salcedo; e credo si debba proprio alla sottigliezza con cui la tragedia della storia (la Shoah, cui s’intreccia la biografia personale, famigliare) non viene mai detta, da lui, in modo troppo esplicito; ma è immanente in tutto ciò che ha scritto. Argumentum e silentio, s’intitola una poesia dedicata a René Char in Di soglia in soglia: la maestria retorica, in forma di preterizione, consiste nel nominare appena il silenzio. Quanto basta per interromperlo, e dunque negarlo. È «la parola vinta al silenzio», dice Celan, quella che «testimonia della notte».

Salcedo non è nuova né alla dialettica fra oblio e memoria, né a quella fra la verticalità metaforica della poesia e l’orizzontalità materiale del suo esporsi. Basti ricordare il suo lavoro più noto, Shibboleth, di giusto dieci anni fa: una fessura che si stendeva lungo l’intera, vastissima superficie della Turbine Hall, alla Tate Modern di Londra. Uno «spazio negativo», come lo definiva l’artista, che anche in quel caso intendeva ricordare l’illocazione, per usare un termine coniato da Emily Dickinson (e volto nella nostra lingua da Amelia Rosselli), delle persone migranti: di cui già allora si vedeva il destino di non-persone cui, nell’indifferenza generale, presto sarebbero state condannate. È vero che – come è stato scritto anche qui – troppe opere di sedicente arte del nostro tempo si limitano a denunciarlo, il nostro tempo: così condannandosi alla piattezza della retorica, nel senso peggiore della parola. Come amano dire Antonio Rezza e Flavia Mastrella, chi abbia qualcosa da «denunciare» fa meglio a rivolgersi ai Carabinieri. Ma questo non ci deve indurre a una paradossale censura preventiva di chi invece cerchi le «parole», in tutti i sensi, per dire certe cose. Altrimenti quelle «cose», davvero, resteranno scritte solo sull’acqua.

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