Cultura

Nel periplo della perdita e delle cose ineluttabili

Nel periplo della perdita e delle cose ineluttabiliNatura morta e corallo / foto Getty Images

POESIA «Il tempo dei morti», un libro di Alessandro Carrera. Per Moretti&Vitali una silloge in versi che ha in chiusura una intervista di Andrea Bajani

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 19 dicembre 2023

Può esserci un dialogo, una «corrispondenza d’amorosi sensi» con i morti? Cosa la contemporaneità ci riserva in questo attraversamento sia doloroso sia formativo con chi ora non c’è più? Nella lunga stesura (dal 1990 al 2022) del suo ultimo libro Il tempo dei morti (Moretti & Vitali,pp. 96, euro 10) Alessandro Carrera avrà di certo dialogato con il Dei sepolcri di Ugo Foscolo, o con la silloge più recente di Spoon River di Edgar Lee Masters, eppure è lo stesso poeta a dirci che l’ispirazione gli è venuta da un evento familiare, un dettaglio biografico sul quale si sofferma nella bella intervista inclusa a fondo libro.

DICE ad Andrea Bajani, che lo intervista in coda al libro: «È il punto d’arrivo di una lotta con un fantasma, che nel testo è rappresentato dal ‘bambino morto’… Per togliere di mezzo ogni curiosità, dirò subito che il bambino era il fratello di mio padre, morto di meningite in orfanotrofio all’età di sei o sette anni».
Nei quattordici movimenti che compongono il libro, Carrera attraversa generi e stili, sperimentando vari metri, in un gioco in cui «discrezione e forma» si rincorrono a vicenda per coinvolgere il lettore in una successione di quadri teatrali organizzati dentro scene come stanze oltre le quali l’orecchio, poggiato ad una parete o ad una porta, ascolta voci. Il tutto è ovattato, distante eppure vicino a un tempo, e quelle voci che si percepiscono sono forse solo un modo che Carrera ha inventato per non dire «io», per tenersi lontano da una confessionalità dove il privato deborda nella teatralizzazione d’una tragedia. A volte si legge pura poesia, altre volte dialoghi tipicamente teatrali, altre volte frammenti prosastici, come nella parte finale, e spesso la musicalità è così forte che si è consapevoli di essere propriamente entrati nel campo della canzone (come accade nella «Canzone del bambino morto», nella «Canzone del figlio» e nella «Canzone della madre», testi inclusi in un volumetto del 2020, Songs of Purgatory, e che sappiamo già musicati e incisi).

LE COSE MAI FATTE, le occasioni mai godute qui generano sottile commozione, mai voyeurismo. Carrera usa i tempi e i modi d’un sommesso rimpianto, come nell’attacco della poesia dedicata al Padre morto: «…camminare mi avrebbe fatto bene/ anche da vivo. Ho finito di scrivere il discorso,/di solito non scrivo, mi metto e non mi viene in mente/niente, da giovane forse avrei potuto, ma stavolta…».
Sono frammenti testuali in cui si ascoltano voci provenienti non tanto dallo stile dylaniano su cui tanto l’autore ha lavorato negli anni come studioso e traduttore, ma una tristesse fra Leonard Cohen e, meglio, il poeta inglese Philip Larkin. E echi di quel modo tutto suo che Carrera ha trovato per condensare la tragicità delle riflessioni sulla vita, facendo uso d’un sottile filo narrativo che induce chi legge a proseguire, a ricostruire uno spaccato di vita, o una rete di legami familiari. Eppure, non siamo di fronte ad alcun andamento lineare, e le voci si sovrappongono, aggiungendo dettagli e sottraendo fili narrativi, perché la componente obliqua ci coinvolga, e ci inviti a combattere col testo.

COME OSSERVA Franco Nasi nella sua prefazione, siamo qui entrati nel tempo dei morti, «che è frammentato, plurimo, sovrapposto, come lo sono le memorie o i sogni che si dipanano seguendo una logica tutta loro, altra rispetto a quella vigile e razionale della veglia».
Il Padre è orfano, non ha potuto studiare, e insieme al fratello più piccolo sono in un orfanotrofio negli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale; il Droghiere, amico del Padre, studia a Milano ma muore presto, e il Padre gli dedica un discorso per il funerale; il Figlio è «un bambino/ che non cresce», se non quando la Madre e l’Angelo non lo incoraggiano a staccarsi, a procedere da solo nella vita, e nella morte: «Oh, morte! Oh, porta che gira,/ gabbia di uccelli nati in gabbia, mezza nostra e mezza no,/ fammi andare presto dove vado, fammi seguire quella/ lucciola perduta, che dice sì e no con la sua luce».
È, infine, la morte a posizionarsi su tutto, dentro vite ancora in essere, esistenze che a questo mondo ingrigiscono in destini già previsti. Qualunque sia la vita da cui questi versi scaturiscono, e qualunque sia l’enorme rimpianto soggettivo per cui questi attanti cercano consolazione, redenzione o perdono, la loro caratteristica è di contenere una bellezza che si oppone al conforto e all’auto-delusione, o alle mezze verità.

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