Quando Giovanni Raboni, nel 2000, recensì due antologie delle nuove generazioni poetiche pronunciò, fra l’altro, questo sintetico giudizio: «Leggere senza scegliere è impossibile, e dirò che fra i testi sui quali mi sono soffermato con maggior piacere ci sono quelli di Andrea Temporelli». Sono passati più di vent’anni da allora e qualche mese fa Temporelli ha raccolto il meglio della sua produzione in un’autoantologia intitolata L’amore e tutto il resto (Interlinea, pp. 136, euro 14), che comprende anche inediti degli ultimi anni.

SIN DAGLI ESORDI confluiti in Il cielo di Marte (Einaudi, 2005), la poesia di Temporelli si è segnalata per una duplice caratteristica: da una parte una disciplina rigorosa per tutto ciò che pertiene alla forma; dall’altra un’attenzione mai tradita verso il reale e l’esperienza, cui allude con eco montaliana (si pensi a La bufera e altro) il titolo di questo libro diviso in nove stazioni tematiche, ordinate secondo una direttrice che collega un’iniziale «promessa di vincere il tempo» agli esiti disincantati della Postilla per l’alieno (ultima poesia-sezione), con al centro un poemetto dedicato alla madre scomparsa (Terramadre).
Sin dai primi libri, Temporelli ha avuto l’ardire di recuperare una forma pressoché morta come la canzone preleopardiana, alternandola con altre impalcature metriche che sorreggono un racconto di esperienze mai pago di sé stesso, ma anzi avvitato in appelli, riflessioni, attese tormentose di qualcuno che non tornerà o che tradisce. Il lessico di questa poesia attinge spesso al campo semantico della battaglia, dell’agone (pugnale, «ferocia inaudita», fronte, dispaccio, soldato, patria, «cessi / per pisciare in compagnia», «battaglia gloriosa», «vasta allegria dell’assalto»…), come se per questo scrittore la relazione – amore oppure tutto il resto – fosse possibile solo se assume la postura psichica di un combattimento, di uno scontro la cui posta in palio, però, appare misteriosa persino a chi lo cerca.

SE DA UNA PARTE l’io convoca, ricorda o invoca gli altri (gli amici morti o persi, il padre da ragazzo, la madre scomparsa, la sposa, i figli, gli allievi), dall’altra questa tensione è minacciata dall’ombra di una ferita, di un «paradiso perduto» o destinato a essere perso, di un male che rischia di contagiare persino la lingua, gli strumenti della poesia che invece dovrebbe preservare quello slancio: Temporelli, che cerca da sempre «una voce che non mente», è infatti anche consapevole dei rischi del «tendone / della metafora», della «lingua cariata / di retorica» che a volte si insinua nel lessico (troviamo tra questi versi parole come averno, oblio, nettare, assenzio, ventre, cantico, talamo), in certe allitterazioni esibite («penetro parole a palme piene») o inversioni artificiali («bianca ferita», «più non c’era»).
In questo continuo corpo a corpo con la vita e con la lingua, la poesia di Temporelli si è offerta sin qui come un tentativo, forse disperato, di resistere alla disgregazione del senso e dell’«opera comune», «perché il tempo dei giorni che s’ingoiano / i volti appena amati sia finito».
Sarà interessante vedere se e come questa scrittura muterà, ora che inizia il tempo della sconfitta in cui gli alieni arriveranno in mezzo a noi «tra fossili di cemento e di plastica», «nella pace / di chi non sa né amore né bellezza».