Béla Tarr, foto Ansa Il simbolo di una generazione (ma anche a prescindere dalle generazioni), di iniziati che s’addentravano nei cunicoli infiniti, nelle gallerie illuminate dal tubo catodico nei primi anni Novanta, proprio come un Videodrome: una resa, una pianificata, pacificata resa nel ventre dell’immagine, che fosse cinematografica o televisiva (quella particolare, sublime forma di televisione scoccante a mezzanotte), poco importava. Questo era – ed è ancora – il cinema di Béla Tarr. Erano le notti di «Fuori orario» officiate dal simulacro asincrono scapigliato di Ghezzi il quale, sacerdotale nella sua tenuta di calicò bianco, invocava metaplasmi, fantasmi fluttuanti nelle...