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Nascita e ascesa del Pci in un quartiere-laboratorio

Nascita e ascesa del Pci  in un quartiere-laboratorioEnzo Mari, «Falce e martello», 1972

Storie italiane Le vicende del partito fondato da Gramsci, sino al culmine degli anni ’70, nel saggio (con interviste) di Enrico Mannari «Il cuore rosso di Livorno», Carocci editore, centrato sullo storico rione di San Marco Pontino

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 15 ottobre 2023

Ho sposato un comunista (esattamente il titolo originale, I married a communist) sembrerebbe, fra i tanti romanzi di Philip Roth, quello più consono al pubblico italiano, del paese cioè che aveva il maggior partito comunista dell’Occidente con più di un milione di iscritti e milioni di voti. Al termine del libro uno dei narratori, il fratello del comunista protagonista della vicenda, si sfoga: «Comunista, comunista, comunista, e nessuno, in America, aveva la minima idea di cosa diavolo fosse un comunista. Cosa fanno, cosa dicono, come sono?». Rispondere a quelle domande era certamente difficile negli Stati Uniti degli anni cinquanta. Lo sarebbe stato anche dopo, come lo sarebbe stato per qualche decennio anche in Italia.

Le file del PCI si ingrossarono, il consenso elettorale crebbe costantemente fino alla metà degli anni settanta. Ma il PCI si guardò poco dentro, non andò ad analizzare chi fossero, come si comportavano, a che cosa aspirassero i comunisti in carne e ossa. Ciò non solo perché nel PCI di Togliatti le scienze sociali erano bandite: sondaggi, interviste, ricerche in profondità erano escluse. Ma anche perché vi dominava la prospettiva di un partito nazionale dove i militanti (la «base», contadina e operaia, mitizzata ma mai auscultata) doveva restare nell’ombra in un soggetto politico alla ricerca di un più ampio consenso. Era più facile che un ritratto del comunista di base lo fornisse, deformato, l’avversario (basti pensare a Guareschi).

Bisognò arrivare agli anni settanta, quando una generazione di scienziati sociali venne accolta e arruolata dal PCI e produsse le prime grandi ricerche sul corpo del partito: così gli storici vicini al partito ricostruirono comportamenti e valori dei militanti, il loro «mondo». Dopo la scomparsa del PCI sono ancora più fiorite storie locali, biografie di singoli personaggi, ricostruzione di singoli episodi, tutti quadri di un puzzle che si viene via via componendo, magari avvolto in un afflato di nostalgia.

A questo genere appartiene il godibile libro di Enrico Mannari, dedicato non a una città, ma addirittura a un quartiere: Il cuore rosso di Livorno San Marco Pontino, viaggio nella memoria di un rione (Carocci editore, pp. 172, euro 20,00). L’approccio è di cultura politica e riguarda le componenti della cultura politica rossa, predominante a Livorno e che, secondo l’autore, troverebbe le sue origini nella battaglia anti-austriaca del 10 e 11 maggio 1849. Quella battaglia e la sua memoria costituirebbero il sostrato del «sovversivismo», del «ribellismo». Può darsi, ma la cultura che si formò a Livorno con il partito socialista, prima e, dopo, più radicata e più pervasiva, con quello comunista, anche quando fu sfiorata da spinte «rivoluzionarie» si collocò nel sistema politico italiano, anzi ne fu colonna portante. Le componenti e i caratteri di quella cultura emergono dalla configurazione del «cuore rosso» che Mannari traccia avendo come cornice di riferimento la solida letteratura che ormai si è affermata, storica o socio-politologica.
Il «cuore rosso» è il quartiere di Porta San Marco insieme a quello di Pontino.

Componente importante della cultura politica dei suoi abitanti – operai, marinai, pescatori – è la memoria: predominante quella del 1921, quando proprio nel teatro San Marco venne fondato il PCI. Dal dopoguerra sarà coltivata intensamente la memoria antifascista della clandestinità e della Resistenza, nonché rinnovata quella del 10-11 maggio 1849.
Dal 1944 nel microcosmo dei due quartieri asse centrale sarà il partito, non più d’avanguardia ma di massa. Le sezioni divennero presto più importanti delle cellule: per le loro migliaia di iscritti politica e vita quotidiana si intrecciavano. Con il partito, passando per la federazione giovanile, si cresceva, si maturava, si incontravano i futuri sposi. Il partito educava alla partecipazione elettorale, nei primi anni del dopoguerra organizzava imponenti comizi, funerali civili imponenti, costante mobilitazione.

Negli effervescenti anni quaranta e cinquanta, ci ricorda Mannari, mezzi di comunicazione dei comunisti del San Marco Pontino erano i muri: giornali murali, scritte sui muri (ce n’è un lungo elenco in una tabella), scrittori di strada. Anche con questi, magari sfidando le autorità, si «marcava» il territorio. Se quell’attività calò nel corso degli anni, rimase sempre vivo un rito canonico: le feste dell’Unità. Ce ne saranno addirittura rionali con balli, gare sportive, musica. Si svolgevano nei giardini della sezione San Marco, ma anche in giardini privai. Secondo Mannari, fedele alla sua impostazione, le feste «avvengono in spazi, strade e piazze, luoghi di una memoria sovversiva che diviene parte dell’ambiente sociale».

Mannari individua tutto questo negli anni del dopoguerra. In quel periodo colloca il momento della creazione e della fioritura della cultura. E dedica ampio spazio a due singolari esperienze: il teatro di massa, che si affermò con uno spettacolo del 1951, coinvolgendo abitanti del quartiere, e la Coppa Barontini di canottaggio che, continuando il Palio Marinaro delle Consulte popolari del ’51, fu creata nel ’66 e «dedicata all’uomo simbolo delle tradizioni politiche del rione, il combattente antifascista e internazionalista Ilio, “Dario” Barontini».

Il secondo momento di ripresa e rilancio dell’egemonia comunista furono per l’autore, che vi partecipò, i primi anni settanta, segnati dall’irrompere del movimento studentesco che innescò una rinnovata mobilitazione. Le fibre del partito ne furono beneficiate, sia in termini di consenso elettorale a metà del decennio, sia nell’emergere di una classe dirigente che nelle lotte e nelle rivendicazioni degli studenti si andò formando. In questa parte del saggio vengono usate prevalentemente come strumento d’indagine interviste in profondità, il più adatto strumento per scandagliare una cultura politica. Da esse si ricava come erano, che dicevano, che facevano i comunisti.

Risulta che l’iniziazione politica avveniva nell’ambiente, nel quartiere, «un quartiere in un contesto popolare, decisamente ‘razionale’ … rispetto a zone più degradate socialmente», come diceva un intervistato. Era avvenuta nella scuola grazie a un professore «democratico», nella partecipazione attiva a una festa dell’Unità, nella esperienza del movimento degli studenti, per un evento (il Vietnam), nella frequentazione di altri giovani disposti alla discussione politica. E nel partito, «una scuola per tutti» (altra intervista), si trovava una comunità riunita dagli stessi valori di solidarietà e vissuta da migliaia di «compagni». L’iniziazione e l’adesione a un sistema di valori avveniva in famiglia: genitori e nonni antifascisti, iscritti o simpatizzanti del partito, la loro narrazione della storia più recente. Per qualcuno «entrare nel partito significò entrare in una famiglia». Il PCI, è stato detto, era un «partito di famiglie»: lo era per l’iscrizione di interi nuclei familiari, lo era anche perché l’unità familiare era un valore professato e rispettato.

Nella famiglia si mutò la concezione del ruolo delle donne. Per molto tempo anche i comunisti livornesi vedevano nella donna la casalinga, addirittura «l’angelo del focolare». Nonostante il protagonismo di alcune donne nella Resistenza e nelle lotte del primo dopoguerra, maschilismo e paternalismo continuarono per anni. Le donne erano semmai le «vestali della pace», e per la mobilitazione in suo favore. Bisognò arrivare al Sessantotto, alla presenza delle ragazze nel movimento studentesco, e poi alla propaganda in difesa dell’aborto nel ’74 perché l’atteggiamento delle donne cambiasse fino al femminismo radicale. Alla campagna per il «no» la sezione del PCI riuscì a far sottoscrivere il documento al parroco e al viceparroco. Avendo la provincia di Livorno fatto registrare la più alta percentuale di «no», a Livorno si organizzò la prima festa dell’Unità dedicata alla donna.

Gli anni settanta, oltre la metà, furono anche per i comunisti di San Marco Pontino il punto più alto del loro impegno. A quegli anni si ferma la ricostruzione di Mannari, che scrive di «irripetibile stagione», di un sentimento di malinconia che «implica memoria e consapevolezza delle potenzialità di quel passato».

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