C’è un fatto curioso e significativo. Benché sia evidente e foriero di nuove disfatte, il vuoto desolante nel quale ci troviamo stenta a essere riconosciuto nella sua radicalità, per così dire epocale. Così il discorso sulla «morte della politica», che potrebbe e dovrebbe offrire le premesse per ripensare in tempo utile natura e funzioni delle soggettività della sinistra – compreso questo piccolo glorioso giornale – in un contesto totalmente mutato dagli anni della cosiddetta prima Repubblica e del bipolarismo mondiale della Guerra fredda, questo discorso è derubricato a faccenda di ordinaria amministrazione, quando non frainteso nel ricorso a puntualizzazioni fini a se stesse.

Queste ultime – la politica non muore perché tutto è politica – lasciano il tempo che trovano, e il tempo è prezioso.

Noi cerchiamo di correre contro di esso perché sentiamo che è in gioco anche una questione in senso largo generazionale. Chi non ha vissuto gli anni Sessanta e Settanta, chi è venuto all’età della ragione quando la politica era già, nel mondo, lo scatenamento neoliberale degli spiriti animali e, in Italia, la mercificazione berlusconica delle istituzioni – in una parola la post-democrazia – ha motivo oggi di identificare l’esistente con l’orizzonte del possibile o di scambiare tutt’al più le proprie aspirazioni soggettive per istanze critiche.

Ma in questa polverizzazione molecolare la sinistra evapora. E nella rassegnata introiezione del dato come unico quadro di senso, la politica – la politica come pratica storico-critica volta alla trasformazione – muore o si riduce a simulacro.

Non dovrebbe essere dunque difficile intendere che questa nostra discussione investe temi vitali. Che ne va, ormai a breve, della sopravvivenza dei residui della sinistra politica, al netto delle grottesche autoinvestiture renziane o bersaniane.

Negli Stati Uniti, che restano di fatto un modello trainante della società europea, la sinistra è da sempre «puro pensiero» critico per dir così disincarnato, annidato nelle Università e nei think tank, affidato paradossalmente al samisdat di ristrette élites intellettuali. È un eccesso preconizzare che nel giro di pochi anni anche in Europa e nella provincia italiana – finalmente normalizzata – sarà questo lo scenario, a meno di mutamenti oggi imprevedibili? Se non lo è, abbiamo dinanzi un destino ineluttabile o un terreno disponibile all’analisi e all’intervento pratico?

Benché la stessa resistenza a riconoscerla, prima ancora che a farsene carico, testimoni l’intensità della crisi, un minimo di lungimiranza consiglierebbe, a mio avviso, di assumere seriamente la questione, con tutto il suo portato quotidiano di frustranti evidenze.

Il punto è: da dove cominciare finalmente questo discorso, consapevoli della sua urgenza e della sua complessità? La crisi della sinistra italiana ed europea è – su questo in molti conveniamo – «organica». Cioè profonda, strutturale. E pervasiva: trasversale agli spazi della cultura e della moralità dei soggetti individuali e collettivi, oltre che incombente sul grado della loro efficacia materiale.

Forse, allora, è proprio da qui che conviene muovere: dalla qualità del «fattore soggettivo», che al dunque rappresenta sempre un aspetto decisivo nello sviluppo delle crisi.

Vorrei fare qualche nome, per entrare a questo punto in medias res. Proprio Gramsci, la cui lezione spesso ritualmente evochiamo; ma anche altri nostri maggiori a cavallo tra l’Otto e il Novecento (Lenin e Lukács, per esempio; e Antonio Labriola) insistettero sull’importanza dell’autonomia culturale e ideologica delle organizzazioni del movimento operaio. Scorgendovi non un corollario ma l’aspetto determinante la loro costituzione e capacità d’intervento.

Autonomia, per un verso, dall’ideologia (e dalla moralità) dominante. Costruzione autonoma, per altro verso, di strumenti concettuali e di criteri di giudizio per la determinazione delle finalità della prassi politica.

Quel che era indispensabile ieri lo è forse meno oggi? O oggi lo è semmai in maggior misura, dato che molto è mutato nel frattempo nelle coordinate di fondo della realtà economica, sociale e politica in cui si tratta di operare? Passaggi di alcuni interventi nella nostra discussione sembrano variamente convenirne.

Valentino Parlato muove dal silenzio assordante della cultura critica; Alfonso Gianni lamenta l’incapacità di leggere la crisi attuale; Stefano Fassina l’assenza di ragioni fondative in una riflessione stagnante. Da ultimo, per contrasto, Luciana Castellina rivendica la densità della presa di coscienza collettiva degli effetti perversi della modernizzazione capitalistica che, all’altezza del ’68-69 e nel decennio successivo, sorresse la sinistra di classe in Italia.

Mi pare che una diagnosi comune circoli in queste considerazioni e che da questa dovremmo partire, senza indulgenza.

Siamo oggi innegabilmente al cospetto di una pochezza disarmante di cui andrebbero individuate le cause. Il respiro corto della politica politicante non è innocuo né – suppongo – accidentale: risente di certo di una fase storica regressiva segnata dall’accentrarsi della sovranità presso oligarchie sottratte al controllo democratico e dal crollo delle grandi ipotesi trasformative; ma tradisce anche le motivazioni di buona parte di un ceto politico e sindacale balbettante e disorientato, sganciato dal conflitto, non di rado disponibile alle seduzioni dell’opportunismo.

Al tempo stesso il silenzio apolitico o il conformismo di quella che fu la cultura democratica impegnata al fianco delle lotte operaie e studentesche pongono un problema di prima grandezza, a meno di non assumere deterministicamente l’inerzia complice dell’intellettualità.

Insomma, forse è arrivato il momento di fare tesoro di un’intuizione che segnò secoli addietro la nascita dell’antropologia moderna: partire da noi senza vie di fuga ed esorcismi di comodo è indispensabile per comprendere le ragioni della crisi della sinistra e scongiurare la morte della grande politica.