La politica muore nel recinto nazionale
Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo […]
Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo […]
Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo chiama Alberto Burgio – della «morte della politica» non mi convince affatto. Per almeno due ragioni.
La prima è che la politica non muore; al massimo, si indebolisce, si affievolisce, entra in un apparente letargo e finisce per essere temporaneamente confusa con l’amministrazione dell’esistente. Ma la politica rimane comunque al suo posto, seppure in forme meno visibili e appariscenti.
La seconda ragione è che mai come in questo momento, se allarghiamo i nostri orizzonti al di fuori della piccola Italia, la politica – quella «grande» a cui faceva riferimento Gramsci – torna a mostrarci la sua vera natura, che per molto tempo avevamo cercato di addomesticare. Nel corso degli ultimi anni, assistiamo quasi quotidianamente ad eventi eminentemente politici: Stati che reclamano la loro sovranità, militari che inscenano (maldestri) colpi di Stato, intere popolazioni costrette a fuggire dai loro territori per motivi etnici o religiosi, nazioni che intendono difendere i loro confini nazionali con chilometri di filo spinato o con muri faraonici. L’elenco può essere allungato a piacimento, ma credo sia più che sufficiente a mostrare che la «notte della politica» (se così era) è finita e siamo all’alba di un grande risveglio.
Finora, il dibattito dedicato alla «morte della politica» si è concentrato quasi esclusivamente – direi ossessivamente (ad eccezione degli interventi di Stefano Fassina e Yanis Varoufakis) – sul contesto italiano e sulle cause «domestiche» della crisi.
La mia impressione, invece, è che per capire lo stato attuale della politica (e della sinistra) serva una prospettiva esterna, internazionale. Mi spiego meglio. A mio avviso, quando oggi si discute di crisi della politica credo che, implicitamente o no, si faccia riferimento all’idea di uno «spazio politico», quello che gli inglesi chiamano polity per distinguerlo tanto dalla politics (il «gioco del potere») quanto dalla policy (l’ambito delle politiche pubbliche).
E mi pare evidente, al di là delle nostalgie nazionalistiche dello stesso Fassina, che lo spazio politico che oggi si trova maggiormente sotto stress è quello dello Stato-nazione, che non ha più la forza, gli strumenti, le capacità per fare fronte alle pressioni delle grandi multinazionali, alle dinamiche dei mercati finanziari internazionali, ai processi migratori di scala continentale, ai disastri climatici o ambientali che superano i confini dei singoli Stati.
In questo senso, la crisi della politica su cui ruota l’intero dibattito è, in realtà, una crisi dello spazio politico nazionale, il quale, da solo, non è più all’altezza delle sfide innescate da economie sempre più integrate a livello internazionale.
È qui, su questo snodo, che la crisi della politica si riflette dentro la crisi della sinistra, non solo italiana.
E su questo ha pienamente ragione Burgio nel sottolineare che l’attuale crisi della sinistra è «una crisi organica, non episodica», e cioè molto più strutturale che congiunturale. Del resto, come potremmo spiegarci l’uscita – per così dire – a destra (con crescita dei partiti populisti, nazionalisti e xenofobi) dopo la più grave crisi economica che il mondo occidentale abbia sperimentato almeno negli ultimi due secoli? Una crisi – si badi bene – prodotta da un neo-liberismo senza freni, totalmente «sregolato», che ha drammaticamente fatto tornare a crescere le diseguaglianze sociali ed economiche dopo una lunga fase di riduzione.
In teoria, tra il fallimento della ricetta neo-liberale e l’esplosione delle (nuove) diseguaglianze esistevano praterie per la crescita delle forze di sinistra. E invece stanno regredendo un po’ dappertutto perché incapaci di, o impossibilitate a, offrire risposte adeguate alla crisi economica nella quale siamo ancora tutti intrappolati. Qui sta l’elemento strutturale dell’attuale debolezza della sinistra, legata a doppio filo con la crisi della dimensione politica nazionale.
Se questa diagnosi è corretta, mi pare chiaro che (soprattutto) i partiti di sinistra debbano incominciare seriamente a interrogarsi su quale sia il nuovo spazio politico idoneo alle sfide che ci troviamo di fronte. Per le forze politiche di destra o conservatrici, che hanno da sempre fatto leva su uno «Stato minimo», la debolezza della politica è un aspetto secondario, marginale. Ci penseranno altri fattori – gli animal spirits, i singoli individui, i gruppi di interesse ecc. – a fare i loro conti con l’economia e con i mercati. Ma per la sinistra la politica – intesa come spazio politico all’interno del quale poter governare e regolare anche i fenomeni economici – è fondamentale: simul stabunt, simul cadent, o stanno assieme o non staranno per nulla.
Se c’è uno spazio politico all’interno del quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è sicuramente quello europeo. È lì che la politica può incidere sui grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione, mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e offrire proposte e visioni alternative ai cittadini.
Certo, non è questa Europa la soluzione, ma sicuramente è dentro l’Europa che va cercata. Per questo trovo sterili le proposte di Fassina, per il quale la risposta ad un «astratto e impolitico europeismo» sarebbe il semplice ritorno alle prerogative dello Stato-nazione, cercando di rimettere il dentifricio della globalizzazione dentro il tubetto nazionale: impossibile.
Ugualmente velleitarie, ma almeno indirizzate verso il giusto bersaglio, mi paiono le soluzioni «movimentiste» di Varoufakis, secondo cui la nuova Europa potrà nascere soltanto da forme diffuse di disobbedienza sociale e territoriale. Se però sono queste le uniche soluzioni sul tavolo, ho l’impressione che la «notte della sinistra» sarà ancora molto lunga.
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