Monumenti, se le immagini della Memoria non parlano più
Andrea Pinotti per Johan&Levi L’«invisibilità» dei monumenti e le strategie per contrastarla nel saggio «Nonumento», dal neologismo creato da Matta-Clark per la sua decostruzione degli edifici e dei relativi significati
Andrea Pinotti per Johan&Levi L’«invisibilità» dei monumenti e le strategie per contrastarla nel saggio «Nonumento», dal neologismo creato da Matta-Clark per la sua decostruzione degli edifici e dei relativi significati
Discutere di monumenti significa necessariamente intrecciare tra loro molti temi differenti, a partire dal complesso rapporto tra arte e memoria, ovvero tra la produzione di opere artistiche e la relatività dei significati a esse associati, tra concezione e interpretazione soggettiva e sociale dei loro valori, fino ad arrivare alle questioni pratiche della conservazione, o ancora della distinzione tra spazio pubblico e spazio museale. Per giunta, quando questo discorso viene riferito all’ambito dell’arte contemporanea, il ragionamento si fa ancora più intricato, perché deve fare i conti con la crisi dell’idea stessa di monumentalità e la radicale trasformazione dei mezzi di registrazione e trasmissione della memoria promossa dalle tecnologie digitali.
Su questo vasto campo minato si addentra con perizia Andrea Pinotti nel suo ultimo saggio dal titolo Nonumento Un paradosso della memoria (Johan & Levi, pp. 320, € 25,00). Il libro è il risultato di anni di lavoro e si struttura in una parte di inquadramento teorico seguita da una nutrita serie di esempi, ripartiti secondo una tassonomia elaborata dall’autore. Il taglio è specialistico e, affinché apprezzi a pieno la densità del testo, il lettore dovrebbe possedere qualche competenza sia in materia di estetica, che di arte contemporanea.
Il paradosso a cui allude il titolo del libro è nel processo di assuefazione della memoria umana allo stimolo procurato dal monumento, che proprio nell’esercizio prolungato della sua funzione può gradualmente perdere efficacia, fino a convertirsi in una macchina generatrice di oblio. Con l’abitudine, sostiene Pinotti, anziché accendere il ricordo, il monumento finisce per spegnerlo, al punto da sembrare realizzato appositamente per anestetizzare il nostro sguardo. Riprendendo un passo di Musil, infatti, egli spiega che nulla al mondo è più invisibile dei monumenti: non «c’è dubbio, tuttavia, che essi sono fatti per essere visti, anzi, per attirare l’attenzione. Ma nello stesso tempo hanno qualcosa che li rende, per così dire, impermeabili, e l’attenzione vi scorre sopra come le gocce d’acqua su indumenti impregnati d’olio, senza arrestarvisi un istante». Per una strana ironia, è come se del monumento, e dei valori che esso concreta, si accorga ormai soltanto chi lo avversa.
Nella prima sezione del volume l’autore mette sotto scrutinio le varie accezioni che il termine «monumento» ha assunto nei discorsi critici e sottolinea la «sconcertante indeterminatezza» che affligge fatalmente la nozione. Questa vaghezza lessicale lo spinge a impostare l’indagine su una base più solida considerando lo scopo originario delle immagini: «presentificare» un’assenza. In altre parole, l’impulso alla genesi dell’immagine è la reazione umana all’esperienza più radicale dell’assenza: la morte. Quindi lo studioso passa dall’oggetto al soggetto, collocandosi in una prospettiva centrata sulla ricezione e sugli affetti che il monumento suscita nel momento in cui entra in relazione con individui e gruppi, e ne analizza il legame duraturo e ambiguo con il suo parente stretto, il documento.
La seconda parte del libro esplora le varie strategie artistiche che a partire dagli anni sessanta del secolo scorso sono state messe in atto per rispondere a quella che da più parti veniva avvertita come una profonda crisi dei dispositivi tradizionali di commemorazione. La dimensione fenomenologica del monumento è quella pubblica, che per sua natura è mutevole e attraversata da tensioni e conflitti. Pinotti spiega che le forme di aperta contestazione della retorica monumentale – antimonumento o contromonumento – si sono in definitiva rivelate inefficienti nella lotta contro l’oblio. Per comprendere meglio il problema, la monumentalità memoriale andrebbe considerata non tanto in positivo, cioè tramite l’identificazione delle proprietà che la qualificano come tale, quanto piuttosto per sottrazione, per via negativa, sopprimendo di volta in volta una o più di una di quelle proprietà – la verticalità, la visibilità, la permanenza, la materialità, la fissità, la magniloquenza, la transitività, ecc.
Tale «via negativa» caratterizza ciò che Pinotti chiama nonumento, neologismo liberamente mutuato da Gordon Matta-Clark. I nonumenti sono memoriali che non solo contestano ma decostruiscono, aggirano, ribaltano una o più caratteristiche dei tradizionali monumenti commemorativi. «Nel rigettare le proprietà tradizionali del monumento, inefficaci a salvare il ricordo dalla dimenticanza(…), il nonumento ne condivide in fondo la funzione: arrestare, o quantomeno frenare, l’entropica inclinazione alla dissoluzione della memoria nell’oblio».
Pinotti si dedica quindi a una ricognizione che spazia dagli impacchettamenti di Christo e Jeanne-Claude ai memoriali dell’Olocausto, dagli ambienti sensibili di Studio Azzurro al No Global Tour di Santiago Sierra, dalla performance all’uso della realtà aumentata. Largo spazio viene concesso a fatti recenti di iconoclastia e vandalismo, nonché alle controversie legate alla cultura della cancellazione. Così compila un catalogo di casi emblematici, dichiaratamente non esaustivo ma utile a comporre una tassonomia delle principali tipologie nonumentali: gli antisublimi, gli «immergenti», gli «invisibili», gli «effimeri», gli «atmosferici», gli «aumentati», i «performativi», gli «interattivi», i «riappropriati», gli «intransitivi». La rassegna delle opere prese in esame è ricca e ovviamente molte, se non tutte, possono essere ricondotte in più categorie.
In conclusione, si riconosce che, stante l’esigenza fondamentale del ricordo, non esiste un antidoto al rischio dell’oblio. Infatti, «se da un lato non possiamo fare a meno di promemoria, dall’altro dobbiamo essere consapevoli che il promemoria non opera come uno strumento riproduttivo che conserva fedelmente il ricordo chiuso e concluso una volta per tutte nel passato, bensì lo costruisce e lo plasma di volta in volta come un dispositivo produttivo, in un intreccio indissolubile di componenti mnestiche (ricordo), paramnestiche (falso ricordo) e amnestiche (oblio): un intreccio esposto alle dinamiche trasformative della storia e della politica».
Dunque, l’esperienza della memoria non può avvenire se non come «presa di coscienza della natura problematica degli strumenti che, facendosene carico, la attivano e la disattivano, la innescano e la disinnescano, la polarizzano e la neutralizzano. Se non come riflessione sul promemoria come paradosso della memoria».
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