Arriva anche in Italia l’ultimo libro di Mona Eltahawy. È un viaggio che sbalzerà lettrici e lettori tra i femminismi da una parte all’altra del mondo e ne sbalzerà parecchio pure l’umore. Sette peccati necessari. Manifesto contro il patriarcato, edito da Le plurali (pp. 304, euro 20), richiede di mettere in gioco molto di sé, accettare qualche schiaffo di realtà e molte provocazioni (necessarie, anche queste).

Mona Eltahawy è tante cose, tante identità. È egiziana, è femminista, è queer, è anarchica. Vive in giro per il mondo ed è arrabbiata. La rabbia, dopotutto, è uno di quei sette peccati – con attenzione, volgarità, ambizione, potere, violenza, lussuria – che giudica indispensabili a scardinare le tante facce del patriarcato.

Potrebbero sembrare una provocazione, ma non è così: i sette peccati sono atti indispensabili per far fronte a un’aggressione, quella patriarcale, che è totalizzante, radicata e realizzata da diversi nuclei sociali, dal più piccolo – la famiglia – al più grande – lo Stato – passando per la società.

Li ho scelti ricordandomi del processo che si è tenuto negli Stati uniti contro Larry Nassar, l’allenatore del team olimpico di ginnastica, che abusò centinaia delle ragazze che allenava. Una di loro, Kyle Stevens, gli disse: «Le bambine non rimangono piccole per sempre. Crescono e diventano donne forti che tornano per distruggere il tuo mondo». Mi piacque quel sentimento. Nello stesso periodo, morì la scrittrice femminista Ursula K. Le Guin, nel 1986 disse a un gruppo di giovani diplomande: siete vulcani, vi voglio vedere eruttare perché quando noi donne eruttiamo cambiamo la mappa del mondo. Vedere donne arrabbiate mi ha spinto a scrivere di rabbia. E mi ha ricordato di quante volte sono stata arrabbiata, o di quante volte mi è stato detto che volevo solo attirare l’attenzione o che il mio linguaggio è troppo volgare, «smetti di dire fuck tutto il tempo». La rabbia è diventata il mio vulcano, quei peccati sono stati il mio vulcano.

Il patriarcato, scrivi, non opera nel vuoto. È una piovra e ogni tentacolo è un’oppressione diversa: capitalismo, neoliberismo, colonialismo, diseguaglianze sociali, economiche e razziali. La risposta è un movimento femminista globale che operi nei singoli paesi secondo le diverse realtà?

Non ci sarà mai il momento magico di un movimento femminista globale, smettiamo di aspettarlo. Partiamo da dove siamo oggi: è importante riconoscere le resistenze femministe in giro per il mondo ed è quello che cerco di fare con la mia newsletter Feminist Giant. Donne e queer lottano ogni giorno, sono l’ispirazione che dobbiamo usare per combattere nei nostri luoghi. Voi in Italia iniziate da qui, combattete la vostra premier di estrema destra. Dicono che Giorgia Meloni sia frutto del femminismo, ma lei ne è l’antitesi. Usa il femminismo per distruggerlo. Iniziate chiamando la vostra premier per quel che è: uno strumento del patriarcato. Fatevi ispirate dalle rivoluzioni femministe in Iran: sono capaci di sollevarsi contro uno dei peggiori regimi patriarcali del mondo ma qui non vediamo femministe bruciare roba in strada o marciare sull’ufficio della premier. Sono molto preoccupata per i diritti delle donne italiane: una premier cristiana e italiana viene usata come modello per le donne al fine di distruggere i vostri diritti. Il patriarcato vince così. Negli Stati uniti dice alle donne bianche: siate grate, non vivete in Iran o in Afghanistan. E intanto vieta il diritto all’aborto. La stessa logica la vedo a sinistra, per questo mi disgustano gli uomini di sinistra, non vogliono essere sfidati: vogliono i poteri degli uomini di destra. E se gli dici che anche qui serve una rivoluzione femminista, rispondono che in occidente abbiamo tutto quel che ci serve, guardate l’Afghanistan, guardate l’Iran. Lo dicono perché hanno paura: iniziamo a fargli paura.

Un pericolo è anche il femminismo bianco occidentale, di stampo liberale, che guarda ai femminismi nel sud del mondo come immaturi, a cui imporre soluzioni. Non tiene conto dei processi coloniali tuttora in corso e non sa quanto radicati siano quei femminismi. È lo stesso femminismo da esportazione che non vede le discriminazioni interne contro donne, trans, queer, persone non binarie. Come si combatte questo approccio?

Viaggiando negli Stati uniti incontro molte donne che mi dicono di voler andare in Egitto ad aiutare le donne egiziane. Perché vuoi andare in Egitto quando qui le donne necessitano nel tuo aiuto? È più facile andare a salvare una donna lontano dal tuo paese perché qui significherebbe combattere il proprio padre, fratello, marito, figlio. È più facile combattere altri padri, fratelli, mariti. Ma è qui che sta la rivoluzione, è a casa. Tutte queste donne bianche che si sentono certe dei propri diritti, ricordino che sono temporanei, non dureranno per sempre. Distruggeranno i vostri diritti mentre voi state sedute a lamentarvi per le donne in Iran o in Afghanistan.

Nel libro più volte parli del privilegio delle donne bianche in Occidente. Come dovrebbe essere usato?

Quando George Floyd fu ucciso dalla polizia statunitense nel 2020, ci furono proteste enormi e nacque Black Lives Matter, il più importante movimento sociale nella storia del paese. Accadeva spesso che persone bianche si frapponessero tra la polizia e le persone nere perché capivano che la polizia tende a essere più violenta e brutale verso donne e uomini neri. È una tattica importante: le persone bianche riconoscono i propri privilegi e li usano per fare da cuscinetto. Ma è importante anche non usare questo privilegio per dire alle persone nere come dovrebbero protestare. È possibile fare le due cose insieme.

Uno degli elementi più dirompenti del tuo lavoro è l’idea che non si possa cambiare il sistema, ne va creato uno nuovo. Un ragionamento che si basa sulla natura profonda dei regimi attuali: dittature militari, autoritarismi ma anche democrazie liberali si fondano su approcci maschiocentrici.

Sono un’anarchica e spesso la gente mi chiede: cosa vuoi? È facile dire cosa non voglio – non voglio l’esercito, la polizia, il governo, lo stato – piuttosto che dire cosa vorrei. Vorrei una società senza sistemi di dominio e un mondo senza gerarchie, che si tratti della famiglia con a capo un uomo, dello stato con a capo un primo ministro, del clero o qualsiasi religione. So che è difficile da concepire. Ma solo immaginando l’impossibile lo si può rendere possibile. Noi non vogliamo riformare il sistema dall’interno, va avanti da secoli e chi ha provato a cambiarlo ne è uscito trasformato. Dobbiamo restarne fuori e continuare a parlare di come si possono smantellare dominio e gerarchia. So che sembra molto teorico e distante dalla vita di tutti i giorni ma possiamo rendere immaginabile un mondo in cui esercito e polizia non esistono. Quando ti rendi conto di quanto siano pericolosi, capirai perché il mondo sarebbe migliore senza. E si può iniziare a immaginare un’alternativa: una vita dignitosa per tutte le persone, abbastanza cibo, sanità, denaro, case. Chi non ha queste cose può usare la violenza e così si giustifica l’esistenza delle forze di polizia che difendono lo stato e non noi come individui.

La guerra combattuta sui corpi delle donne scompare dalle cronache e dalla Storia. Guardando alle donne come primo popolo colonizzato della storia, parli di violenza e resistenza – anche armata – contro quella colonizzazione.

Il patriarcato è la più antica forma di occupazione al mondo. Se riteniamo che i popoli sotto occupazione o colonizzazione hanno il diritto di resistere e liberarsi usando ogni mezzo necessario, perché questo diritto non può essere riconosciuto a donne che vivono il quotidiano terrorismo del patriarcato? Il patriarcato va considerato una forma di terrorismo. L’unico gruppo a cui viene detto di accettare la violenza e di non resistere sono le donne. Il mio capitolo sulla violenza disturba molte persone perché le costringo a rispondere a domande che non vorrebbero affrontare. Perché vi infastidisce l’ipotetica domanda sull’uso della violenza e non la realtà quotidiana delle brutalità sulle donne?

(Il libro sarà presentato oggi a Napoli alle 14.30 all’Università Orientale e alle 19 a Scugnizzo liberato. Domani a Roma: alle 11 alla facoltà di Sociologia della Sapienza e alle 18.30 alla Casa internazionale delle donne)