François Ozon è un regista che non riesce a stare fermo, col suo amato R.W Fassbinder, a cui aveva dedicato lo scorso anno Peter Von Kant, condivide almeno la velocità creativa che lo vede realizzare un titolo all’anno. Ecco che dopo quel film, nel concorso della scorsa Berlinale, arriva Mon Crime – La colpevole sono io, un film del tutto diverso, che dal teatro da camera di catastrofi emotive del precedente passa a una rivisitazione del vaudeville. Ma anche questa è una cifra che caratterizza il regista francese, che ama confrontarsi con generi e forme narrative per rivisitarle e cambiarne il segno, mutarne i significati e gli usi convenzionali dentro a un sistema di «trasgressioni» e spiazzamenti costanti.

ALL’ORIGINE di Mon Crime c’è la piéce del 1934 di Louis Verneuil e Georges Berr nella quale Ozon distilla molte tracce del nostro contemporaneo, e lo fa con leggerezza, nello stile del «boulevard» – un po’ come già accadeva in 8 donne e un mistero di cui ritrova peraltro anche Isabelle Huppert. La storia è semplice: una giovane attrice squattrinata nella Parigi degli anni Trenta viene aggredita sessualmente dal produttore che l’aveva convocata per una parte, e che è trovato morto nella sua magione di lusso. Omicidio di cui la ragazza appare subito l’ovvia colpevole. Madeleine Verdier (Nadia Tereszkiewicz, la protagonista del magnifico Forever Young di Valeria Bruni Tedeschi) sogna di diventare una diva, intanto condivide una soffitta sui tetti insieme all’amica del cuore, Pauline (Rebecca Marder) che ha studiato per essere avvocato, ha uno spasimante ricco a cui però il padre ha tagliato i fondi, che le propone di diventare la sua amante mentre lui sposerà una ereditiera scelta dalla famiglia in modo da non essere più punito. Le ragazze stanno per essere sfrattate, vessate dalla portiera acida e impicciona, si consolano andando al cinema. Ci sono tutti i riferimenti di un’immagine/immaginario assai codificato, che appunto Ozon trasforma grazie anche alla complicità degli attori in una scena della modernità. Il teatro diviene il tribunale in cui il «processo Verdier» ha luogo, già perché nel frattempo la ragazza ha confessato il «suo» crimine. Scena, studio cinematografico, spazio pubblico e mediatico di scandalo, permette a Ozon nel movimento di accusa e difesa di disegnare le sue geometrie nel segno di una narrazione del femminile/ femminista.

Madeleine si difende col diritto di dire «no» – alla violenza, ai soprusi, ai ricatti di quell’uomo che rappresenta l’ordine fallocentrico del maschile tutto, un diritto che ciascuna deve avere e poter esercitare verso mariti, padri, fidanzati o datori di lavoro che siano, espressione di quell’ordine incarnato dagli accusatori, dall’ispettore di polizia, dal procuratore (Fabrice Luchini).
In questo processo che si fa scontro di genere entrano e escono altre figure, ma soprattutto Madeleine afferma le sue doti di attrice e diviene la star che voleva essere, simbolo e idolo di ogni donna di Francia, che l’adora come la temono gli uomini – pure se non tutti. A guidare la messinscena c’è l’amica avvocato, autrice abile di ogni parola in cui dosa e giuste emozioni e regista impeccabile (alter ego dello stesso Ozon?) di una sceneggiatura che punta a ristabilire un ordine borghesissimo dove  le due ragazze si affermano senza bisogno di umiliazioni.

DI QUESTO gioco del falso e del vero che ammicca, scompone, ricompone, spariglia i suoi «fake» e ne crea altri, cita luoghi e figure del già visto e prova a dargli una patina di novità, fa parte anche l’imprevisto, nel caso la vecchia diva (sublime Huppert) che irrompe in questo nuovo ordine per minacciarlo, e rivendicando lei volto del muto una parola assai pericolosa. Una nuova sfida per la regia che saprà però come affrontarla. Proprio come fa Ozon che se non firma qui la sua opera più intensa riesce a mantenere sempre quella fluidità leggera con cui mettere insieme i propri ingredienti evitando anche laddove il rischio è alto gli eccessi del luogo comune.