Olimpo, Ararat, Sinai, Calvario, Tabor, ma anche Kailash, Fuji, Denali e Uluru (Ayers Rock). A ogni latitudine e in ogni tempo la montagna è stata popolata da divinità. Per millenni la solitudine delle altezze è stata l’interfaccia tra l’umano e il non. La membrana di roccia e ghiaccio che separa terra e cielo è il punto in cui l’uomo scopre la sua piccolezza, la sua irrimediabile solitudine. Ma è anche il trampolino aereo che negli ultimi due secoli è stato il punto di partenza per imprese straordinarie.

Dall’800 a oggi, la montagna è il timbro della nostra umanità. Come (quasi) tutto lo sport, l’alpinismo deve la sua origine ai gentlemen inglesi, che per primi si dedicarono a una metodica e febbrile ascesa delle Alpi. Poi, soprattutto in Himalaya, la montagna fu il teatro di spedizioni alpinistiche quasi militari, una gara tra uomini e nazioni. Fino a essere luogo di guerra vera e propria come nelle nostre Dolomiti. Tra il finire degli anni ’70 e i ’90 è diventata terra per superuomini, individui forti, eccezionali nella testa e nelle braccia, i Bonatti, i Messner e simili.

Oggi, le vette popolate da solitarie croci di ferro, circondate da impianti di risalita e villaggi montani, sono vere «palestre di roccia», «piste» e «vie» tracciate. Quasi mai terra sconosciuta. L’era eroica dell’alpinismo è finita. Per fortuna, forse. Resta l’età degli uomini (e delle donne), capaci di imprese fisiche e psicologiche impensabili. L’era della velocità ha preso il posto dell’alpinismo classico. Un’epoca quasi futurista, in cui il gesto e il tratto, lo stile, fanno premio sulla sostanza dei «problemi» alpinistici.

Con questo inserto, si mette «in movimento» in un senso apparentemente diverso da quello, politico, al quale sono più abituati i nostri lettori.

Eppure l’outdoor, la wilderness, il «movimento» appunto, abitano da sempre queste stanze come quelle di chi ci segue. Il manifesto non esiste senza passioni. Tanti anni fa anche il Gambero rosso sembrò una follia, eppure…

Iniziamo con un tema apparentemente secondario, quello della «montagna usata», che troviamo illuminante per la sua ambiguità.

«Conquistatori dell’inutile», disse degli alpinisti il francese Lionel Terray con espressione diventata proverbiale. Un contrappunto tra uso e abuso che apre le questioni invece di chiuderle. Che proverà a generare, appunto, un movimento, uno scarto, anche in chi ci legge.

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Il «passo nel vuoto», una stanza di vetro costruita all’Aiguille du Midi, sul versante francese del Monte Bianco

Restando con i piedi per terra, questo non è un dorso specialistico, tutt’altro (sebbene a specialisti chiediamo di partecipare, come oggi a Umberto Isman).

Cercheremo di raccontarvi ciò che si fa, si scrive, si produce, si fotografa e si pensa attorno a questa umanità che si muove a piedi, sulle mani, con gli sci, le bici, la vela e tutto ciò che consente di vivere, per qualche tempo, in un’altra dimensione. Quella dove lo spazio e la natura ci toccano nell’intimo. Un contatto potente a cui nessuno che lo abbia provato almeno una volta, seppur fuggevole, resta indifferente.