La banda non aveva nemmeno lo spartito dell’inno uruguaiano, il 16 giugno del 1950. Stadio Maracanà di Rio de Janeiro, in campo per la finale della coppa del mondo i padroni di casa del Brasile e l’Uruguay, vittima sacrificale, ultimo ostacolo da superare prima di coprirsi di gloria. La Federcalcio e il governo avevano preparato dei festeggiamenti sontuosi: migliaia di cartoline commemorative, ventidue medaglie d’oro, addirittura la guardia d’onore. Persino il presidente della Fifa Jules Rimet aveva scritto e imparato un discorso in portoghese per celebrare a dovere i sicuri vincitori della coppa che portava il suo nome. Gli spettatori presenti sugli spalti erano 199.854, già in festa prima del fischio d’inizio. L’entusiasmo montò alle stelle quando, all’inizio del secondo tempo, Friaça segnò il gol del vantaggio carioca. Nessuno, proprio nessuno, aveva preso in considerazione l’ipotesi che il Brasile potesse non vincere la coppa.

Eppure. Eppure prima Schiaffino e poi Chiggia ribaltarono il risultato. Il mondiale se lo portò a casa l’Uruguay. Tra cronaca e leggenda si dice che parecchi spettatori andarono in crisi cardiocircolatoria e che, almeno in due, decisero di farla finita gettandosi giù dagli spalti. Fuori l’annunciato carnevale si trasformò in un corteo funebre. Gli alti papaveri della federazione calcistica brasiliana lasciarono lo stadio prima della premiazione, la guardia d’onore osservava in lacrime i giocatori in maglia celeste che, un po’ spaesati, alzavano la coppa al cielo. Finita la cerimonia, gli uruguaiani ripresero in fretta e furia l’aereo per Montevideo per «motivi di sicurezza».

Il governo brasiliano proclamò tre giorni di lutto nazionale. Il giorno dopo la sconfitta, i giornali aprivano con titoli tipo «La nostra Hiroshima». Il giornalista Ary Barroso decise di abbandonare la professione, il difensore Danilo sprofondò negli abissi della depressione e tentò il suicidio. Eccolo qui, il Maracanaço, l’autobiografia di un popolo che ha scelto il pallone come arma di riscatto. Poi sono arrivati i vicini di casa e hanno rovinato tutto.

Il Brasile non avrebbe più giocato una partita di pallone fino al 1952. Con una maglia diversa, quella verde e oro divenuta poi classica, ma che allora era solo un modo per dimenticare quella bianca bordata di blu simbolo della storica disfatta.

Il governo, duramente contestato, scaricò la colpa sull’allenatore Flávio Costa e sul portiere Barbosa, che nel 1994, alla vigilia dei mondiali americani, arrivò a dichiarare che «per la legge brasiliana la massima pena è trent’anni. Ma la mia detenzione dura da cinquanta». Un mese fa, l’anziano ex portierino ci ha pure provato ad andare allo stadio, per vedersi l’esordio del Brasile contro la Croazia, ma non l’hanno fatto entrare. In un’intervista a Osvaldo Soriano, il capitano di quell’Uruguay, Obdulio Varela, «il re del centrocampo», si disse dispiaciuto per quella vittoria. Opinione maturata una sera in un locale di Rio de Janeiro, dopo aver visto la disperazione negli occhi del barista.

Anni dopo, Alcides Ghiggia – uno spiritello da un metro e sessantacinque per sessanta chili – trovò il tempo per infierire: «Solo tre persone hanno fatto tacere il Maracanà: Frank Sinatra, Giovanni Paolo II e io». C’è da capirlo: dopo il Maracanaço fu riempito di botte fuori dallo stadio. Le scalette dell’aereo, a Montevideo, le scese sulle stampelle.